“La civiltà è essenzialmente domesticazione: è la domesticazione umana. Ecco perché dobbiamo liberarci dalla civiltà”. Così Enrico Manicardi, avvocato, attivista, saggista, conferenziere sui temi della critica radicale, sintetizzava la sua visione di civiltà nella prima parte del nostro incontro (leggi ‘Decivilizzazione: strada per vivere un’esistenza libera), concluso parlando di lavoro ed economia.
Riprende da lì questa seconda e ultima parte della nostra intervista.
Nello scenario che descrivi, non pensi ci sia comunque bisogno e che sia possibile almeno una “nuova” forma di economia?
L’Economia è sempre uno scenario di mercificazione e di inganno, dove la Terra, le relazioni umane, gli esseri viventi e tutto quel che esiste sono nient’altro che cose da sfruttare per fini di lucro. Pensiamo al rapporto che l’economia ha con la Terra. Per l’economia la Terra è solo una risorsa, e cioè un bene da sfruttare: qualcosa che deve essere strappato da dov’è, manipolato col lavoro servile degli Umani, trasformato in prodotto e venduto al mercato in cambio di denaro, che serve per farci diventare ricchi. Perché l’economia ci insegna a vedere la ricchezza nel possesso di cose e di denaro: non nei sentimenti; non nell’armonia della vita; non nella consapevolezza di questa armonia. Anche per tale motivo l’economia è ufficialmente definita la “scienza triste”.
Da questo punto di vista, quindi, l’economia è la scienza predatrice per eccellenza, proprio come ci svela la sua stessa etimologia. Economia, infatti, deriva dall’unione di due termini greci: Oikos (casa, la casa di tutti e cioè il Pianeta) e Nomos (normazione, amministrazione attraverso norme). Letteralmente, cioè, economia significa: “amministrazione della Terra in funzione del suo dominio umano”.
Così come il Potere (che non può mai essere “buono”) è la volontà di dominazione, di controllo e di soggezione degli Umani sugli Umani, l’economia è la volontà di dominazione, di controllo e di soggezione degli Umani sulla Terra.
Cosa cambierebbe, allora, una “nuova” volontà di dominazione, di controllo e di soggezione degli Umani sulla Terra?

Come per il Potere, per il Lavoro e per la Tecnologia, anche per risolvere i problemi portati dall’Economia non serve una “nuova” economia. Serve criticare radicalmente l’Economia e tutti i suoi terrificanti derivati. Il che, esattamente come per il Potere, per il Lavoro e per la Tecnologia, non ci farà immediatamente uscire dalla prigione civilizzata in cui siamo nati e cresciuti, ma eviterà almeno di renderci complici di essa attraverso qualche artificio retorico o qualche contorcimento lessicale.
Tanto più che, l’economia, dal punto di vista dei rapporti umani, è anche quella scienza che ci mette tutti contro tutti: tutti intenti a massimizzare i nostri interessi personalistici, a curare i nostri affari, le nostre convenienze, i nostri guadagni appunto, facendo del nostro vantaggio individuale la principale ragione di ogni relazione. Possiamo anche definirla “sostenibile”, “green”, “slow”, “locale”, “circolare” o “della felicità”, ma la sua detestabile essenza non muta. Nello scambio, notava in proposito l’antropologo americano Marshall Sahlins andando direttamente al cuore della questione economica, «i partecipanti si fronteggiano come interessi antagonisti, ognuno teso a massimizzare il proprio tornaconto a spese altrui».
L’etnologo Claude Levi-Strauss, è stato ancora più esplicito: “Gli scambi sono guerre pacificamente risolte, così come le guerre sono il risultato di transazioni sfortunate”.
L’anarchico Proudhon ha superato tutti quanto a chiarezza del concetto: “il commercio – ha scritto – è l’arte di vendere a 6 franchi ciò che vale 3, e di comprare a 3 franchi ciò che vale 6: è insomma l’arte di fregare il prossimo”. Possiamo trovare una forma di sostenibilità per questa ignobile prassi? C’è forse un modo sostenibile, felice o “nuovo” di fregare gli altri?
L’economia è sempre esista? Non è un fattore intrinseco alla vita umana?
Per nulla. L’Economia nasce con la civiltà, con il surplus agricolo portato dalla coltivazione delle terre. È la civiltà, dunque, che ci ha calato in una concezione distorta della vita fondata sull’accaparramento e l’imbroglio. L’umanità primitiva che ha vissuto per più di tre milioni di anni antecedentemente l’avvento della civiltà, e le popolazioni di raccoglitori-cacciatori che ancora oggi resistono alla colonizzazione civilizzata (perché la civiltà è un processo di colonizzazione – di “globalizzazione” come si dice più democraticamente oggi), vivono e hanno sempre vissuto fuori dall’economia, non imbrigliate da una qualche forma particolare di economia. Esse, cioè, hanno sempre fondato le loro relazioni di gruppo sul dono, sulla cooperazione e sul mutuo appoggio; non sullo scambio, non sul lavoro, non sulla speculazione economica o l’interesse personalistico. Hanno cioè sempre vissuto nella logica antieconomica del “dare”, e non in quella economica (e riprovevole) del “prendere”, che poi è facilmente tracimata in quella del “pretendere”.
Sono questi i riferimenti primitivi e gli insegnamenti originari che abbiamo bisogno di recuperare per riabilitare la nostra vita di relazione; non quelli consunti, prezzolati e malavitosi del mondo che ci tiene in ostaggio e che ci sta annientando.

E se non sarà possibile applicare questo tipo di rapporti sani e vivi a tutti gli attuali abitanti del Pianeta (perché non tutti oggi vogliono la libertà, la felicità, la dignità, il rispetto, la responsabilità), quel che si potrà immediatamente fare è cominciare ad applicarli alle relazioni con le persone giuste, iniziando a fare quanto necessario per liberarci dalla domesticazione e unirci in Comunità (cum munus, con dono) in perfetta opposizione ad ogni mistificata logica economica, tecnologica, lavorativa e di potere. Naturalmente, avendo sempre meno bisogno di comprare e di venderci, sarà possibile riabilitare ulteriormente il nostro spirito ferito, e, in queste “enclave” irriducibili alla vita civilizzata, avremo almeno liberato una parte della nostra esistenza da quel Leviatano che ce la sta risucchiando, anche attraverso l’insidia di mostrarsi benevolo nel suggerirci aggettivi melliflui da aggiungere ai termini ripugnanti che contraddistinguono i suoi fondamenti disastrosi.
È questo che intendi dire quando parli della necessità di evadere dalla prigione del Sistema?
Esattamente! Abbiamo tutti un nemico comune: si chiama civiltà. Dobbiamo ritrovare il desiderio appassionato di liberarci da questa prigione e di riprenderci di nuovo in mano la nostra vita.
Gli umani sono animali sociali e, pertanto, la vita libera, all’aria aperta, da condividere con le nostre persone care è ciò che tutti aneliamo. Ma siamo in prigione. Dunque, non basta migliorare le condizioni di prigionia. Non basta cioè lottare per ottenere due ore d’aria invece di una o per ottenere l’eliminazione dei poco dignitosi numeri dal pigiamino del detenuto o per imporre alla mensa carceraria l’opzione per chi è vegano. Lottare per migliorare la prigionia, significa solo lottare per rimanere in prigione! E in gabbia tutti gli esseri viventi soffrono, fino alla nevrosi. È solo una questione di tempo.
Civiltà contro natura
L’aumento dell’uso di psicofarmaci nelle società moderne, l’aumento delle malattie nervose e di quelle definite espressamente “malattie del progresso” (cancro, diabete mellito, ipertensione, infarto cardiaco, ictus); l’aumento delle forme di autolesionismo individuale fino all’aumento dei suicidi connesso anche al devastante isolamento esistenziale che il tecno-mondo ci consegna, ci dice che la civiltà opera contro natura, ed è solo causa di malessere esistenziale e di disturbi della psiche e del corpo. Serve agire sulle cause di questa nostra sofferenza, sulla condizione di prigionia. I balsami e i palliativi allungano solo la sofferenza rendendoci pian piano sempre meno capaci di comprendere quali siano le cause che la generano.
Non serve fare finta di niente, e nemmeno mettere la testa sotto la sabbia. Serve invece cominciare a organizzarsi, seriamente e fattivamente, per mettere a punto la nostra fuga da Alcatraz. È una fuga che rientra assolutamente nelle nostre possibilità; e i nostri cuori liberi, i nostri corpi votati naturalmente alla gioia di vivere, la nostra mente non ancora sopraffatta del tutto dalla domesticazione ce lo chiedono a gran voce.
Il primitivismo è la strada? Come si creano le condizioni per questa scelta e come si realizza nella concretezza?
Il primitivismo è la strada, anche se io, più che di primitivismo, preferisco sempre parlare di critica radicale alla civilizzazione o di teoria e pratica anti-civ. Ovviamente, è solo questione d’intendersi, ma il termine “primitivismo” contenendo il suffisso -ismo, può far pensare a una nuova ideologia (come sono ideologie il comunismo, l’anarchismo, il buddismo, il materialismo, eccetera). Mentre invece qui non si tratta di inventare una nuova ideologia, ma di cominciare a smantellarle tutte.
E a chi pensa che sia impossibile iniziare a liberarsi dalla civiltà, ricordo che non servono miracoli. Decivilizzarsi è un percorso: un percorso impegnativo, certo, ma assolutamente alla portata di tutti.
È un percorso da realizzare in maniera condivisa, gioiosa e per gradi (troppi sono infatti gli anni della nostra soggezione subita). Ma decivilizzarsi è possibile.

Quello su cui serve concentrare l’attenzione è il fatto che esistono due sostanziali forme di civiltà: una che vive fuori di noi e una che vi alberga dentro.
La civiltà che vive fuori di noi, la vediamo tutti: è quella fatta di istituzioni, governi, burocrazie, polizie, eserciti. Contro di essa possiamo fare poco oggi: è diventata troppo potente, non tanto tecnologicamente o militarmente, quanto politicamente. Infatti, il consenso che essa ha raccolto in migliaia di anni di suo perfezionamento continuo, e in particolar modo negli ultimi 80 anni di stordimento delle popolazioni attraverso la democrazia, l’ha resa quasi inespugnabile (Grande Messinscena del Coronavirus docet).
Ma c’è anche una civiltà che vive dentro di noi: si chiama domesticazione. È la nostra domesticazione che possiamo cominciare a sgretolare subito. E proprio perché ci riguarda individualmente, possiamo iniziare a farlo da ora, senza ostacoli rappresentati dagli altri ai quali il percorso non interessi; senza limiti di soldi, di tempo o di spazio; senza scuse, quindi, o altre pseudo giustificazioni contrarie. Serve soltanto una bella convinzione personale, tanta volontà di ritrovare se stessi, una precisa e costante continuità di esercizio e un po’ di pazienza.

Come dico sempre durante le mie chiacchierate pubbliche, nel modenese esiste già una piccolissima realtà di persone che, insieme a me, ha iniziato a muoversi in questa prospettiva: quello che facciamo non è forse niente di risolutivo, siamo solo una Minor Threat (una “minima minaccia”). Ma il bisogno di iniziare a prendere le misure con ciò che ci sta cacciando fuori di noi è naturale e irrefrenabile. E chi fosse interessato o interessata a saperne di più, può contattarmi personalmente alla mia mail attraverso il mio sito www.enricomanicardi.it.
La decivilizzazione è dunque una via aperta a tutti?
Ogni individuo civilizzato può scegliere di intraprendere la via della propria decivilizzazione, perché ogni individuo è in grado di decidere se liberarsi dalla civiltà. Tuttavia, i nostri (per)corsi di decivilizzazione non sono aperti a tutti: non sono cioè una sorta di “servizio pubblico” al quale basti semplicemente aderire per far scattare l’obbligo di prestazione. E non lo sono per due ragioni. In primo luogo, perché, come si diceva all’inizio, i “tutti”, in fondo, non esistono: esistono invece le persone singolarmente, e cioè ciascuna con il proprio trascorso, le proprie inclinazioni, i propri limiti e propri talenti (oltre ai propri tabù e ai propri scheletri nell’armadio).
Secondariamente, si deve considerare che l’animale umano è un animale selettivo, e non c’è alcun obbligo per nessuno di iniziare a scavare nella propria interiorità se non scatta, da parte di tutte le persone in gioco, alcuna scintilla di simpatia. Solo la simpatia può crescere e diventare empatia, e solo l’empatia è capace di nutrire quella base relazionale necessaria alla condivisione di un simile (e così importante) tratto di strada comune. Se non ci si piace, dunque, e non ci si piace subito e reciprocamente, nessun percorso potrà mai essere iniziato. Ma questo, ovviamente, non deve scoraggiare; al contrario, è la garanzia che, laddove si riesca a cominciare, lo si farà con la certezza di potersi affidare e fidare di chi ne verrà coinvolto a tutti gli effetti.

Perché una volta accertata l’esistenza di una reciproca sintonia, le porte sono aperte alla collaborazione. E i nostri (per)corsi, come dico sempre a chi si mostra fattivamente interessato a intraprenderli, hanno quattro caratteristiche indefettibili: sono totalmente gratuiti perché, nel mondo che portiamo nel cuore, c’è posto solo per la pratica del dono e non per il lucro o gli scambi economici; sono (per)corsi in presenza e personalizzati, perché nel mondo che portiamo nel cuore, non c’è posto per la felicità on demand; sono (per)corsi gioiosi e condivisi perché, nel mondo che portiamo nel cuore, sarà la gioia e la condivisione a tessere la trama della nostra vita. Ma sono anche (per)corsi completamente ispirati alla più intima consapevolezza, perché non esiste nessuna Libertà (e dunque nessuna Felicità) senza responsabilità e rispetto di tutto quel che esiste (vegetali, animali, persone, minerali, astri, acqua, aria, fenomeni naturali, energie della Terra).
Natura e cultura. Cosa significa ritornare alla natura umana? La cultura come può intervenire in senso evolutivo?
Cominciare a decivilizzare la nostra vita, vuol dire iniziare a liberarla proprio dai tanti burqa culturali che ci hanno infilato addosso, così da poterla riportare il più possibile alla condizione di naturalità. La Cultura, principale artefice del nostro confluire fuori da noi, ci tiene costantemente fuori di noi: ci insegna a vivere in un universo simbolico invece che naturale, spingendoci fino a credere che non si possa più vivere in un ambiente naturale, ma solo in uno culturale. E noi, tanto viviamo circondati e sopraffatti dalla Cultura, che abbiamo imparato a credere proprio a quella menzogna, e pensiamo che senza linguaggio sia impossibile comunicare, che senza spettacoli culturali sia impossibile divertirsi, che senza leggi dello Stato sia impossibile autogestirci, e siamo persino convinti di non poter più fare a meno dell’arte, delle cerimonie, del denaro, dello smartphone. Ma è un trucco, l’ennesimo trucco. Noi possiamo benissimo vivere senza i fardelli della civiltà, e siamo anzi capaci di farlo nonostante quei fardelli. Perché, per dirla alla maniera di Sigmund Freud, la cultura (simbolica) è, assieme al Lavoro, soltanto la sconsolante contropartita che il mondo civilizzato ci offre per l’accettata repressione delle nostre pulsioni naturali, della nostra libertà istintiva e del nostro eros. La Cultura, insomma, è civiltà. Ed è un surrogato, un rimpiazzo, un ripiego accettato come sublimazione di una natura messa al bando.
Siamo l’unica specie al mondo che ha rinnegato la Natura e inventato quella sua ridicola scimmiottatura (che chiamiamo appunto Cultura-civiltà), e che crede in quella finzione: e cioè in quella costruzione puramente ideologica che ha dichiarato guerra al Vivente sovrapponendosi pian piano ad esso e scalzandolo prima dalle nostre aspettative di senso e poi, via via, anche dalla realtà viva e vegeta. E non si tratta solo di una metafora. Basta pensare ai termini che definiscono il Progresso odierno: Intelligenza Artificiale, Realtà Virtuale, Bioingegneria, cibo transgenico, Transumanesimo. Tutti concetti che ci dicono, appunto, in maniera esplicita, che lo scopo della Cultura è, in ultima analisi, la soppressione della Natura: la soppressione dell’intelligenza naturale, della realtà naturale, del cibo naturale, della vita naturale. E persino della nostra natura umana (transumanesimo).

Siamo in pericolo, in grave pericolo! Serve allora imboccare la direzione opposta. Serve ritornare a sentire la Natura come nostro punto di riferimento: non già la cultura, non già le ideologie o le religioni (comprese quelle laiche tanto in voga oggi); non già le prescrizioni mediche, le linee guida, i protocolli o le evidenze scientifiche; e nemmeno le soluzioni pronte offerte dai tanti venditori di fumo.
A quest’ultimo proposito voglio essere schietto: ogni percorso di decivilizzazione, è un percorso a suo modo impegnativo, si diceva, che chiede di darsi da fare per ritrovare se stessi, di mettersi in gioco in prima persona per cominciare a sovvertire conformismi e luoghi comuni, valori e categorie dominanti, illusioni e pratiche di soggezione, così da abbattere dogmi e tabù. Esso coinvolge noi stessi a tutti i livelli, chiamando a raccolta tutte le nostre energie vitali. Ma è proprio questo impegno che può restituirci il senso del ritrovar noi stessi, la stima in noi stessi, la sicurezza nelle nostre capacità e nei nostri talenti. Se è vero, come dicono gli anarchici, che la Libertà si conquista e non si mendica, lo stesso vale anche per la nostra Felicità, per la nostra Dignità di esseri umani, per il rispetto nei confronti di noi stessi e di tutto quel che esiste.
Purtroppo, invece, tante persone preferiscono stare con le mani in mano ad aspettare il liberatore di turno. Ci hanno insegnato in questo modo. (continua a leggere)