Una vita che si realizza nell’azione, “nello sforzo, nella responsabilità e nell’impegno personale: nell’essere sempre presenti a noi stessi, nel saper provvedere alle nostre necessità e a quelle dei nostri cari; nel cadere a terra e nel rialzarci in piedi”.
È la vita che vale la pena essere vissuta, conquistata, amata.
A raccontarci quello che è un vero e proprio processo di riappropriazione della libertà e di decivilizzazione Enrico Manicardi avvocato, attivista, saggista, conferenziere sui temi della critica radicale, che aspira a un mondo libero, radicalmente decentrato, ecologicamente intatto e contrassegnato da relazioni calde, spontanee, non gerarchiche, non consacrate al culto della Tecnica (qui il suo sito). Perché “nel mondo civilizzato siamo tutti prigionieri, ma non siamo tutti schiavi.” Possiamo e “dobbiamo ritrovare il desiderio appassionato di riprenderci di nuovo in mano la nostra vita”.
Come si fa a cambiare una società?
Viviamo ormai immersi nella massificazione, e abbiamo imparato a dare carattere soggettivo a ciò che non lo è, come ad esempio la Società, lo Stato, le Istituzioni, la Chiesa. La “società”, se ci si pensa bene, non esiste: è solo una finzione terminologica. Esistono invece i singoli individui che, insieme, formano gruppi (anche sociali). Dunque, se si vuole vivere in un contesto collettivo diversificato rispetto a quello in cui (soprav)viviamo oggi, si può solo pensare che cambino gli individui, a cominciare da noi stessi. Ma non serve un semplice cambiamento di facciata: serve un cambiamento “radicale”, ossia che vada alle radici del problema che abbiamo. Cambiare per cambiare, non serve a niente. I problemi si risolvono agendo sulle loro cause e non sopprimendone i sintomi esteriori; e cambiare, per quanto mi riguarda, significa appunto andare a ritroso nell’indagine sui mali del nostro tempo per cercare di dipanare i nodi originari (le cause) della nostra alienazione. Fin tanto che continueremo a preservare le fondamenta del mondo tossico e triste che ci sta distruggendo, mettendo semplicemente una pezza qua e là, nulla cambierà mai davvero.
Che cosa vuol dire decivilizzarsi? E perché farlo?
Decivilizzarsi vuol dire liberarsi dalla civiltà. E la civiltà è la prigione nella quale ci siamo rinchiusi da diecimila anni. Gli umani, infatti, abitano la Terra da più di tre milioni di anni, ma circa diecimila anni fa (solo diecimila anni fa!), con l’avvento dell’agricoltura – che è appunto universalmente riconosciuta come l’atto di nascita della civiltà – alcuni di loro hanno preso una direzione autodistruttiva: la direzione della civilizzazione.
Fino a diecimila anni fa tutti gli umani venuti al mondo (e si parla di più di centomila generazioni di persone) erano perfettamente convinti del fatto che la Terra fosse un soggetto, una madre (Madre Terra).
Con l’agricoltura, invece, la Terra diventa un oggetto: non più qualcuno da amare, ma qualcosa da usare e mettere a frutto (sfruttare). Questo ferale cambio di paradigma, mosso dalla reificazione (e cioè dalla prassi di trasformare il vivente in cosa), ha via via sconvolto il Pianeta intero. La reificazione, infatti, che è il motore della civiltà, ha cominciato a espandersi travolgendo ogni forma di vita, ridotta in cosa da sfruttare.

Uscire dal Sistema
In pratica, quella mania di dominio che abbiamo cominciato a nutrire da circa centomila anni con la “coltivazione” dei nostri cervelli (attraverso la cultura simbolica, detta anche Cultura con la “c” maiuscola), diecimila anni fa è debordata dall’interiorità umana arrivando a ingabbiare tutto e tutti: prima attraverso l’agri-coltura (coltivazione delle terre per la produzione di surplus agricolo), poi con l’allevamento (“coltivazione” degli animali per la produzione di carne, pellicce, latte, uova e cuccioli da sottoporre al medesimo sfruttamento); poi continuando con la società patriarcale (“coltivazione” delle donne per la produzione di figli, ai quali trasmettere il patrimonio del patriarca), fino alla trasformazione del mondo intero in un fattore di produzione, una “risorsa”. Oggi, infatti, che questa prigione civilizzata ingloba tutto e tutti, non solo la natura è ridotta a risorsa, ma anche noi umani lo siamo diventati: i lavoratori sono considerati risorse umane; i migranti sono visti come risorse economiche; i bambini sono ridotti a risorse del futuro. A forza di considerare tutto “cosa”, noi stessi siamo diventati cose: ci consideriamo come oggetti, ci trattiamo come oggetti, ci usiamo come oggetti e come tanti oggetti ci sfruttiamo reciprocamente. La civiltà è il nostro problema originario, la causa della nostra attuale e tragica condizione esistenziale.
In che senso parli della civiltà come di una “prigione”?
In quanto espressione generale del dominio, la civiltà, che viene anche comunemente chiamata Sistema, Società o Megamacchina, è una grande prigione perché il suo scopo è quello di separarci dalla natura e di rinchiuderci nel circolo vizioso della dipendenza da se stessa.
Fateci caso: la vita civilizzata non è un’esistenza libera a contatto con il vivente; è una vita in cattività.
La civiltà ci ha progressivamente strappati dal nostro ambiente naturale recludendoci in luoghi artificiali (città, abitazioni, chiese, uffici, palestre, automobili), ci ha pian piano espropriati delle nostre capacità di auto-sussistenza (tanto che oggi non sappiamo più realizzarci utensili, costruirci un riparo, procacciarci il cibo da soli, riconoscere una pozza di acqua potabile da una che non la è), ci ha reso dipendenti dal Sistema (che ci vende quei beni e quei servizi che dovrebbero sostituirsi alle nostre competenze inibite), e ora viviamo in gabbia, ammansiti e annichiliti, ad aspettare che il “guardiano” di turno ci porti (a pagamento) la dose quotidiana di cibo industriale che ci distruggerà la salute; ad aspettare che il “guardiano” di turno ci faccia arrivare (a pagamento) la visita del veterinario che ci darà il colpo finale con le sue medicine (rendendoci sempre più dipendenti dalle medicine); ad aspettare che qualcuno ci distragga con i suoi spettacoli da baraccone, il suo gioco d’azzardo, la sua triste pornografia.
Parli di una vita in cattività, dunque di una vita da animali domestici?
Esattamente. La domesticazione è la fase più sofisticata del dominio. Se io costringo qualcuno a stare in gabbia, lo comando con la violenza dell’autorità. Ma se lo convinco invece a starci volontariamente in gabbia, l’ho addomesticato: il soggetto addomesticato non uscirà più da quella prigione, nemmeno se le sue porte saranno spalancate del tutto. E anzi, presto imparerà ad accettare ogni angheria, leccando la mano di colui che lo governa e lo bastona. Proprio come sanno fare i cani coi loro padroni (il cane è il primo esempio di animale addomesticato: un lupo domestico).
La civiltà è essenzialmente domesticazione: è la domesticazione umana. Ecco perché dobbiamo liberarci dalla civiltà.

Comodità, neutralità: tu individui queste parole tra quelle che ci fanno accettare la ‘gabbia’ del Sistema. Ce le spieghi?
Il tecno-mondo di oggi è lo sviluppo ai suoi massimi livelli della società tecnologica, e gli attributi della “comodità” e della “neutralità” (assieme a quello della “immanenza”) costituiscono i principali supporti ideologici di questa società. Si dice cioè, per luogo comune, che la tecnologia sarebbe comoda e neutrale, e ciò serve a renderci accettabile un mondo fondato sulla tecnologia. In realtà, si tratta di due attributi falsi e intesi solo a mistificare lo stato delle cose.
Il carattere della “comodità” è rinvenuto nella capacità della tecnologia di fare le cose per noi, e dunque di renderci agevole la vita. In questo senso sembrerebbe confermato il suo assunto, e cioè il fatto che la tecnologia possa essere considerata comoda. Ma la questione è un’altra:
siamo sicuri che questa supposta comodità ci faccia bene?
Siamo sicuri cioè che non sia invece la prima responsabile di una degradazione progressiva dell’umanità verso una condizione di abiezione? Mi pongo queste domande, perché, quello che non ci viene detto, è che, facendo le cose per noi, la tecnologia ci toglie la capacità di saperle fare; ci toglie il bisogno di saperle fare; ci toglie persino il senso di farle in piena autonomia. Nei fatti, proprio perché la tecnologia è considerata comoda e fa le cose per noi, essa ci rende sempre più dipendenti dalla tecnologia, e quindi sempre meno autonomi. E attenzione: autonomia è un sinonimo di libertà.
La cosiddetta comodità, quindi, ci toglie libertà; e noi accettiamo questo deleterio compromesso solo perché viviamo esistenze ormai così insulse e vacue, così lontane dalla felicità, così piegate dallo stress e dallo sfiancamento continuo (dovuto al bombardamento quotidiano di obblighi, impegni, divieti), che l’idea di arrivare stremati a casa la sera in automobile, salire al terzo piano con l’ascensore, accendere la luce con un comando vocale, mangiare cibi preconfezionati e spingere un bottone magico per entrare nel Paese di Bengodi della televisione (o in quello alternativo e analogo dei social), ci consente di tirare un sospiro di sollievo, facendoci credere che questo sollievo sia l’essenza della libertà, mentre invece lo è soltanto della schiavitù: questo sollievo, cioè, è solo l’ora d’aria che ci viene concessa affinché si possa continuare a subire, anche domani, la corvè quotidiana di questa non-vita che ci consuma.

Responsabilità e impegno personale
Detta diversamente, quella che chiamiamo comodità è in realtà “inazione”: il mondo tecnologico ci sfianca a tal punto da desiderare l’inazione, che è la condizione opposta a quella che ci caratterizza come soggetti senzienti. La vita, infatti, non si realizza nell’inattività e nell’inazione, ma nello sforzo, nella responsabilità e nell’impegno personale: si realizza cioè nell’essere sempre presenti a noi stessi, nel saper provvedere alle nostre necessità e a quelle dei nostri cari; si realizza nel camminare, nel correre, nello scherzare; si realizza nel guardare, nell’ascoltare, nell’annusare, nel gustare, nel toccare, nel sentire, nel pensare, nell’amare; si realizza nel riuscire a immedesimarci negli altri, nel saper tessere relazioni, nell’essere capaci di far uso del buon senso, nell’operare scelte assumendoci le relative responsabilità; e si realizza anche nel ricordare, nel muoverci nell’ambiente circostante, nell’imparare a conoscerlo; si realizza nel cadere a terra e nel rialzarci in piedi. Tutte esperienze reali, queste, che la tecnologia tende a eliminare dalla nostra vita, rendendoci dei perfetti abulici tecno-dipendenti, ossia degli indolenti e apatici spettatori della nostra vita, avvinghiati morbosamente al tecno-mondo in forza di un legame di totale soggezione e sottomissione.
La “neutralità”, invece, sempre riferita alla tecnologia, attiene a quel trito e ritrito stereotipo secondo il quale la tecnica non sarebbe né buona né cattiva in sé, ma dipendente dall’uso che se ne faccia. Anche tale salottiera cantonata riesce solo a imbrogliare la questione, così da farci credere che la tecnologia non sia un problema, ma un’opportunità. Invece la tecnologia è sempre un problema: un grosso problema.
Per realizzare oggetti tecnologici, per esempio, bisogna sventrare montagne, saccheggiare terre e bacini minerari, depredare fiumi, disboscare foreste, inquinare l’ambiente in generale. E lo si deve fare non solo per costruire armi o slot machine, ma anche per realizzare oggetti o servizi considerati di grande utilità: serbatoi necessari a distribuire acqua potabile in una città; abitazioni in legno o in cemento armato; impianti medici e paramedici; strutture sportive; piste ciclabili; opere pubbliche. La tecnologia, dunque, non è mai neutrale perché anche quando è diretta a realizzare finalità considerate buone, produce devastazione e disastro. E tutti questi effetti deleteri della tecnologia sono totalmente ineliminabili al suo utilizzo.
Naturalmente si potrà pensare che il gioco valga la candela, e che se anche sia vero che la costruzione di opere pubbliche porti un po’ di distruzione ecologica, il beneficio arrecato superi di gran lunga il costo ambientale da sopportare. Purtroppo, però, anche volendo dare per ammessa questa valutazione di convenienza, resta il fatto che quegli effetti indesiderati si producono lo stesso, contro la nostra volontà. Anzi, trovarsi a ragionare in termini di opportunità rispetto ai danni che la tecnologia provoca, ci rende ancora più cinici, in quanto ci porta a giustificare ciò che non vorremmo si verificasse. Dunque, non solo la tecnologia non è neutrale, ma infilandoci in una spinosa valutazione sul vantaggio che essa assicurerebbe contro i danni certi che produce, ci rende persino sprezzanti e irresponsabili rispetto a quegli stessi danni. La tecnologia, insomma, ci spinge verso l’impassibilità, l’incoscienza e la negazione della capacità di rispondere delle nostre azioni. Altro che neutralità! Del resto, l’idea che la tecnologia, e cioè uno dei fondamenti della civiltà, sia un fenomeno indifferente ai valori sociali di questo stesso mondo che la produce e la spaccia, non è già di per se stessa un’idea ingenua?

La tecnologia, dunque, non può mai essere amica?
Assolutamente no. Se per produrre oggetti tecnologici servono bauxite, ferro, rame, nichel, manganese, silicio, coltan, terre rare, eccetera, vuol dire che si debbono predare tutti questi elementi dalla terra. Ma vuol dire, anche, che servono persone che facciano questo terribile e ingrato lavoro di saccheggio. Chi sono queste persone? C’è forse qualcuno, sano di mente, che desidererebbe sacrificare tutta la propria esistenza per sgobbare come uno schiavo 15-18 ore al giorno in una miniera, solo per garantire ai consumatori ricchi del mondo progredito di veder prodotti i loro smartphone, i loro computer e le loro auto elettriche? Sicuramente no. Nessuno vorrebbe essere privato in questo modo della propria vita. Dunque, quel che ne deriva, è che per disporre di oggetti tecnologici occorre costringere migliaia di persone a fare quello che nessuno vorrebbe fare: migliaia di individui che, ricattati dai meccanismi impietosi dell’economia e incatenati dalle necessità di una penosa sopravvivenza civilizzata, sono costretti a scendere in giacimenti bui, insani, soffocanti, in cui, oltre ai pochi spiccioli coi quali vengono miseramente pagati, spesso trovano la malattia o la morte. E tutto ciò senza alcuna pietà per loro. Per estrarre coltan, per esempio, vengono utilizzati bambini, perché possono infilarsi molto meglio degli adulti negli stretti crepacci della terra in cui quella sabbia nera viene portata alla luce. Quanti ne muoiono ogni giorno? Quante persone vengono straziate e uccise perché possa essere garantito a noi “liberi” cittadini del mondo giusto di comunicare con whatsapp?
La tecnologia gronda del sangue di tutte le migliaia di persone che sono costrette a sacrificare la loro esistenza perché qualcuno ne possa usare i relativi gingilli.
Quando parliamo di tecnologia, dunque, occorre avere ben chiaro che stiamo parlando di schiavitù.
E alla domanda che si chiede se sia possibile fare un uso amichevole o sostenibile di tecnologia, è molto semplice rispondere se solo si mettono le parole giuste al loro posto: c’è forse un modo amichevole o sostenibile di fare uso della schiavitù?

Come conciliare queste considerazioni con l’utilizzo di tecnologia? Usare oggetti tecnologici pur sapendo tutto ciò, non pone una questione di coerenza?
Nel mondo civilizzato siamo tutti prigionieri, anche coloro che si credono liberi; anche i secondini e i direttori del penitenziario. Tutti dipendiamo dal sistema tecno-industriale, e ogni persona incivilita è ostaggio di questo sistema. Dunque, esattamente come un prigioniero è costretto a nutrirsi alla mensa della prigione e a dormire sui materassi fornitigli dall’amministrazione carceraria, anche noi, imprigionati dalla dipendenza verso i rimedi prodotti dal Sistema, ne facciamo uso. Ma un conto è utilizzare oggetti tecnologici con la consapevolezza che la tecnologia sia un problema, e facendolo dunque con disprezzo, cercando di ricorrervi il meno possibile e sapendo che la tecnica non è né comoda né neutrale bensì diretta a spingere l’umanità verso l’inazione, l’irresponsabilità e la devastazione generalizzata, e un altro è usare oggetti tecnologici credendo che la tecnologia sia liberatoria, neutrale e capace di garantire una vita agevole.
In prigione, quel che conta non è mai ciò che ognuno di noi è in grado di fare, ma come intende farlo: se s’intende cioè procedere in maniera critica e responsabile o invece in modo acritico e irresponsabile. In prigione, insomma, nessuno può essere coerente; ma tutti possiamo essere consapevoli e responsabili.
Dunque, così come vivere in un centro abitato non significa necessariamente accettare la logica della razzia territoriale portata dalla devastazione urbana, o circolare con i documenti d’identità appresso non significa necessariamente accettare la logica della schedatura poliziesca che la società della sorveglianza attua sulla popolazione intera, allo stesso modo fare uso di gadget tecnologici non significa necessariamente accettare la logica di devastazione a tutto tondo del mondo hi-tech che ce ne impone l’utilizzo. La civiltà imprigiona ognuno di noi dietro le sbarre della società tecnologica, ma c’è una bella differenza tra l’essere prigionieri e l’essere schiavi; una differenza che corre proprio nel diverso approccio che l’uno e l’altro assumono nei confronti della condizione carceraria. (Clicca qui per continua a leggere)