(leggi la parte precedente dell’intervista) Spiega ancora Enrico Manicardi:
Ci hanno insegnato a credere che esista un Messia liberatore, e che basti stare docili e zitti a invocarlo per riceverne il miracolo della nostra emancipazione. È così infatti che facciamo pregando inginocchiati in chiesa, andando passivamente alle urne a votare o facendoci spennare dai tanti furboni succhia-soldi con le loro “pozioni” magiche. “Venghino, signori venghino!”, gridano ancora oggi dai loro botteghini rinomati (e spesso alternativi): “Comprate questo, acquistate quello, cogliete al volo l’occasione migliore; e poi ancora: iscrivetevi al nostro seminario, partecipate al più importante corso di specializzazione, aderite alla tal iniziativa riservata, prenotate la vostra seduta esclusiva, sottoscrivete, firmate, siglate, flaggate, approvate, e tutto si risolverà d’incanto, si compirà senza che nulla dobbiate fare!”. Non funziona così. Sfortunatamente, cioè, non esiste alcun liberatore e nessun miracolo.
Artefici della propria vita… libera
Per quanto sia sempre consigliabile farsi accompagnare da chi ne sa più di noi quando si tratta di intraprendere percorsi che non conosciamo, e sia quindi fondamentale nella vita saper sempre riconoscere quali possano essere i nostri punti di riferimento autorevoli, stabili e sicuri, serve lottare in prima persona per raggiungere la nostra condizione di Serenità e di Pace. Solo noi possiamo liberarci dalla morsa della domesticazione. Solo noi possiamo scegliere e decidere di fare tutto quanto necessario per rialzarci in piedi, camminare e poi correre tra le braccia della vita, così come abbiamo sempre fatto da milioni di anni prima che le insidiose stampelle della civiltà ci inibissero ogni movimento facendoci credere che lo avrebbero invece permesso o agevolato.

E chi, rifiutando di agire sulle cause della sofferenza procurata da questo tecno-mondo infame, preferisce attenuare il peso del dolore facendo ricorso a balsami e palliativi, a sballi e altri diversivi, a rimozioni e sfoghi delle frustrazioni, prima o poi pagherà con un prezzo durissimo la propria superficialità e la propria avventatezza.
Tornare alla natura umana vuol dire tornare a noi stessi: vuol dire lottare per tornare a risentire il bambino e la bambina liberi che vivono dentro di noi; lottare per ritornare a sentire la gioia di vivere, l’entusiasmo di esserci, il piacere di sentirsi parte di quel Tutt’uno inscindibile che chiamiamo Natura. Significa lottare per provare a ridare voce a quel nostro interiore “Richiamo della Foresta” che ci fa sentire vivi. E non c’è bisogno di cultura (simbolica) per questo, solo di tanta natura, dentro e fuori di noi.
La società attuale allontana dal sentire il corpo. Quanto perdiamo nella non ‘fisicità’?
Perdiamo tutto! Perdiamo gran parte della natura che è dentro di noi. Il corpo è il nostro luogo deputato non soltanto al piacere (fisico), ma anche al comprendere. Noi umani, infatti, apprendiamo attraverso l’esperienza diretta, e cioè attraverso il gioco dei sensi (corpo), che ci trasmettono quegli stimoli che possiamo portare in consapevolezza (testa) per fissare nel cuore la conoscenza. Corpo, mente e cuore sono cioè i tre passaggi indispensabili alla nostra comprensione del mondo, al nostro equilibrio cognitivo-emozionale. Se togliamo il corpo, togliamo tutto. Senza corpo, restano solo delle teste vuote da riempire di nozioni: resta solo l’istruzione, non l’apprendimento.
Nella società dello spettacolo e di massa tutto è finto, tutto è rappresentato: relazioni, soddisfazioni, gioie, contatti personali. In questo contesto patinato e inverosimile, interamente percorso da ipocrisia e virtualità, anche i corpi sono stati resi inaccessibili: occlusi alla vista dagli indumenti, allontanati dalle sensibilità umane ad opera delle convenzioni sociali, inibiti al piacere dalla morale, manipolati dalla moda e dai media, sformati dallo stile di vita opulento e consumistico, mutilati dalla Medicina.
Il corpo è diventato un luogo di non-appartenenza, perché non ci riguarda più: è diventato un non-luogo.
Le brutali aggressioni del corpo mosse dalla società industriale (dall’industria del cinema – non solo porno – a quella della chirurgia estetica), rendono tutti noi degli spettatori passivi anche della nostra carne. Ucciso lo spirito, la società materialistica nega anche il corpo. E la tecnologia è la sua più fedele alleata: un’altra ennesima dimostrazione della sua invasività programmata e devastante. Non c’è più sentimento, non ci sono più emozioni, se non quelle indotte dalle notizie del Telegiornale o da un gol della Nazionale di calcio. Non c’è più condivisione, stabilità emozionale, rispetto, forza di volontà. Non c’è più amore.

Amore e piacere, sono dimensioni che vanno rilette?
Sono dimensioni fondamentali che vanno rivalutate. Unitamente al loro correlativo essenziale, la condivisione (perché l’amore senza condivisione è solo egocentrismo e il piacere senza condivisione è solo solipsismo che chiude alla vita invece di aprirvici), amore e piacere risultano non pervenute. Eppure, senza amore e senza piacere non c’è vita. Solo le macchine funzionano senza amore e senza piacere. Se non torneremo a imparare ad ascoltarci, a sentirci, a capirci, a toccarci, ad abbracciarci, a sorriderci, a volerci bene, a riconoscere le nostre reazioni naturali e i nostri impulsi vitali, e continueremo a vivere senza amore e senza piacere sublimando le nostre frustrazioni con l’acquisto beni e servizi di riparo, non potremo mai dare le risposte migliori ai nostri bisogni.
Se Sigmund Freud ci ha spiegato che la civiltà conduce gli umani alla nevrosi perché è la repressione di tutte le nostre pulsioni naturali, e Otto Gross, psicanalista austriaco e amico di Freud, contestandone l’abietta definizione di “male necessario”, cercò di scardinare dalle fondamenta la civiltà stessa, combattendone le strutture di potere patriarcale e autoritarie, Wilhelm Reich, originario discepolo di Freud (poi distaccatosi anche lui per evidenti ragioni d’incompatibilità con la deriva del “male necessario” del maestro), ci ha spiegato La funzione dell’orgasmo. Il piacere personale, anche quello fisico della libido amorosa, garantisce l’equilibrio psicologico della persona, laddove la sua repressione crea la crepa entro la quale il potere dirompente delle istituzioni sociali (dall’autoritarismo alla morale collettiva, passando per l’educazione, l’istruzione, la famiglia, la religione fino al potere economico) si infiltrano nello spirito umano per spezzarne l’equilibrio e l’integrità.
Spazio all’impulso vitale
Non è vero, insomma, che Eros (impulso di vita) e Thanatos (impulso di distruzione o di morte) siano entrambi impulsi naturali: il primo lo è di sicuro, in quanto iscritto nel nostro istinto naturalmente incline al piacere, al godimento, alla soddisfazione, alla felicità e alla gioia di vivere; ma la spinta verso la distruzione (o la morte) non è una pulsione naturale: è una spinta indotta culturalmente dalle condizioni di repressione del nostro eros e di tutte le altre pulsioni naturali. È insomma una reazione autodistruttiva indotta dalla civiltà: dalla sua forzata imposizione sulle nostre vite con conseguente perversione nevrotica. E la nevrosi non la si cura con la Medicina, né con la Religione e nemmeno con i Diversivi (i famosi “mezzi di distrazione di massa”, come li chiamava Sabina Guzzanti). La Medicina, la Religione e le Distrazioni non risolvono il problema della civiltà, perché sono parti di questo problema. Curare i sintomi esteriori della sofferenza che ci procura una vita senza amore e senza gioia condivise, non servirà a stare meglio, ma solo a rendere quei sintomi imperituri.

Come raccontare e coinvolgere in questo tipo di cambiamento un giovane ‘nativo’ tecnologico?
Quello che vale per tutti noi, vale anche per i giovani di oggi e per quelli di domani, anche se, da “nativi digitali”, le problematiche si complicano esponenzialmente. Il tecno-mondo che abitiamo come individui che tele-vivono è infatti un problema per tutti, figuriamoci per chi non abbia mai potuto sperimentale una vita fuori dal display.
Questo universo telematico, che ci sta soggiogando ad ogni livello, induce a rinchiuderci davanti ai nostri device, a pigiar bottoni, a tastar tastiere, a toccare schermi che ci schermano. Tele-trasmettiamo informazioni, tele-giochiamo, tele-compriamo e tele-vendiamo tutto; tele-lavoriamo come servi della gleba senza più un orario, una pausa settimanale, un permesso retribuito, e col peggiore dei padroni: noi stessi.
Tele-pensiamo, ci tele-visitiamo, ci tele-istruiamo, ci tele-emozioniamo: insomma, tele-assorbiamo tutto quel che passa davanti ai monitor e di noi non resta altro che un nickname, un username, un alias.
Ci tele-masturbiamo, perfino… In definitiva, viviamo sempre meno a contatto diretto con gli altri: non ci parliamo più negli occhi, ci mandiamo un whatsapp; non ci incontriamo più di persona, ci intratteniamo via skype; non viviamo più esperienze dirette, consumando il tempo della vita meravigliosa che ci sorride guardando stupide storie su Instagram.

Non ci siamo più, non contiamo più: siamo solo masse da indurre al consumo, utenti da spellare, fruitori passivi di servizi, campioni di persone per sondaggi, dati share, exit poll. Del resto, tutto nel tecno-mondo pare procedere da solo, senza bisogno di noi (dell’umano che è in noi); e a nulla vale arrovellarsi il cervello per cercare di comprendere cosa ci stia accadendo, perché la tecnologia, a proposito della sua pretesa neutralità, non supporta un universo che abbia cura di chiedersi “perché”, ma solo uno che abitua tutti a chiedersi “come si fa”. Come si fa a collegarsi a internet? Come si fa a scaricare questa app? Come si fa ad accendere al respiratore artificiale che tra un po’ saremo costretti a usare?…
‘Schermati’ dalle tecnologie
Nel mondo delle macchine non è richiesta nessuna partecipazione attiva delle persone, che sono loro a servire le macchine e a farle funzionare. Nel mondo delle macchine, insomma, sono le macchine che contano. E gli individui, ridotti a pigiabottoni, diventano sempre più freddi, distaccati, operativi, proprio come lo sono le macchine. Non serve più pensare, sentire, patire, gioire, vivere. Serve solo un infinito adattamento al potere della macchina, con tutto quel che ciò comporta anche in termini di perdita di ogni capacità critica, perché non è difficile comprendere che, più dipenderemo dalle macchine, meno saremo disposti a criticarle.
Ma non è tutto. Il tecno-mondo non solo ci distanzia esternamente dagli altri e da noi stessi rendendoci degli automi (dis)funzionali. Esso ci distrugge anche dentro. Gli schermi, infatti, schermandoci dagli altri, corazzano le persone le une contro le altre, ne dissipano la capacità di sentire il prossimo (perdendo quella che viene comunemente definita empatia), e con ciò mettono in opera una vera e propria deprivazione emozionale che, mentre sfocia nell’incapacità di assumersi le proprie responsabilità (è più facile interrompere una chiacchierata o una lite ghostiandosi in rete che affrontando l’interlocutore di persona), costruisce la base portante di un analfabetismo emozionale disastroso, di cui le giovani generazioni “native digitali” sono il destinatario più a rischio. Abituati a vivere costantemente sullo schermo, non “alleniamo” più il nostro apparato emozionale, cosa che ci rende “leoni” al telefono e “pecore” nella vita reale, timorosi di far valere le nostre ragioni in faccia a chi ce le contesti, e diventando a volte persino incapaci di parlare o di interloquire con un adulto o con gli altri.
La società autistica
Sviluppando separazione dai nostri sentimenti, la tecnica ci trasforma in veri e propri inetti emotivi, letteralmente attraversati dalle emozioni senza alcuna attitudine a fissarle nel cuore, comprenderle, farne motivo di determinazione. Yehuda Baruch, docente alla Southampton Business School, è stato il primo studioso a rilevare l’esistenza di un nesso causale tra l’autismo e lo sviluppo della società contemporanea. In un articolo del 2001 dal titolo The autistic society (“La società autistica”), ha sostenuto per primo che lo sviluppo della società industriale, e l’uso di tecnologia informatica legato a questo sviluppo, tende a generare un mondo in cui le persone sono sempre più separate dalle loro emozioni e incapaci di riconoscerle.
L’uso dei sistemi elettronici di comunicazione crea una carenza di contatti emozionali e affettivi tra gli individui, che sono spinti alla ripetizione ossessiva di comportamenti standard, alla monotonia, alla mancanza di contatto visivo.
Vengono sempre più esclusi i sistemi tradizionali di comunicazione faccia a faccia in favore di quelli filtrati dalla tecnologia elettronica la quale, essendo appunto un filtro, tende a inibire ogni modalità di relazione che non sia quella artificiale che passa sullo schermo. Le persone si chiudono nel loro bozzolo virtuale fino, nei casi più estremi, alla dipendenza da Internet. Si forma così, pian piano, una “società autistica” nella quale le persone diventano ogni giorno più incapaci di sentire, di percepire, di comprendere emozioni e di esprimerle facendole proprie. Insomma, diventano sempre più incapaci di interagire con se stessi e dunque anche con gli altri.

Del resto, la tecnologia agisce anche nel senso di evitare di aver bisogno degli altri. Grazie ai navigatori satellitari, non c’è più alcuna necessità di chiedere informazioni stradali a nessuno, e nessuno è più chiamato a dare una mano ad altri per raggiungere un certo luogo. Grazie ai nostri smartphone, non c’è più bisogno di chiedere scusa di persona, di manifestare cordoglio abbracciando qualcuno. La tecnologia ci permette di disdettare un appuntamento senza alcun coinvolgimento personale; ci permette di confessare un amore senza guardare negli occhi nessuno o di chiudere una relazione sentimentale con un whatsapp. Perché la tecnologia, si diceva, c’insegna a non avere bisogno di nessuno: c’insegna ad arrangiarci da soli, a fare tutto senza alcun coinvolgimento altrui; c’insegna a considerare noi stessi, e cioè la nostra ego, come l’unica condizione di valore esistente o di riferimento. L’individualismo più becero, così come il consumismo più menefreghista, nascono appunto da questa ottusa chiusura verso il mondo reale che esiste fuori di noi. Ed è ovvio che le nuove generazioni, immerse sin dalla nascita in questo universo di contatti mediati e disumanizzati, che sono solo il simulacro di una vita vissuta pienamente e in prima persona, ne ricavino il danno più esplosivo.
Ma come i cani-cavia “depressi” di Pavlov, che durante un allagamento dei laboratori dove erano ingabbiati per subire esperimenti di condizionamento psicologico, persero improvvisamente – durante l’alluvione – ogni apprendimento loro indotto da Pavlov stesso, anche noi umani possiamo sbarazzarci di tutti i condizionamenti forzati instillatici dalla civiltà. E non abbiamo bisogno di traumi per rimetterci in contatto col desiderio profondo di liberarci da ciò che ci opprime, ci spegne, ci uccide: l’illuminazione che possiamo ricevere dalla nostra capacità d’intuizione è più che sufficiente a rimetterci sulla via della nostra libertà-felicità in luogo di quella della nostra fine annunciata. Questo, almeno, è ciò che possiamo augurarci per tutti gli individui della Terra, ed è ciò che possiamo cominciare a realizzare subito per noi stessi.
La vita è meravigliosa! Basta solo saperla ritrovare tra i cumuli di macerie sotto i quali è stata seppellita da millenni di miserie, soprusi e costrizioni della civiltà.