(segue) Decivilizzazione: strada per vivere un’esistenza libera

Prigionieri… consapevoli

(Qui la prima parte dell’intervista a Enrico Manicardi) Il prigioniero è consapevole di essere in stato di detenzione, e pur accettando tutto quanto gli venga fornito dalla direzione penitenziaria, sa perfettamente che la sua libertà è fuori dalla galera; ha dunque in animo di evadere. Lo schiavo, invece, è un prigioniero che difende la propria condizione di prigionia: la considera migliore di altre forme di prigionia e quindi la magnifica. Accetta cioè tutto quello che gli fornisce l’amministrazione del carcere come fosse una manna, e ne diventa sempre più assuefatto. Ha perduto non soltanto la capacità di comprendere che la sua libertà vive fuori dalla prigione, ma anche di immaginarsi cosa sia la libertà; dunque non ha più alcuna intenzione di evadere.

Nel mondo civilizzato siamo tutti prigionieri, ma non siamo tutti schiavi.

E se la civiltà è una condizione di prigionia che spinge i detenuti verso la schiavitù, la tecnologia, che è uno dei fondamenti della civiltà, non può che essere abominevole: costringe, condiziona, isola, deprime, spegne, devasta, uccide. Tuttavia, la sua fine non potrà mai essere decretata con un gesto, un precetto o una legge. Non si tratta, cioè, di strappare dalle mani della gente i dispositivi tecnologici di cui si serve, perché tutti ce ne serviamo a nostro modo. L’unico modo per vedere la fine della tecnologia è quello di lottare per riabilitare un mondo nel quale non ci sia più il bisogno di tecnologia. Solo un mondo libero dal bisogno di tecnologia potrà essere un mondo liberato dalla tecnologia. Pertanto, solo chi comincerà a servirsi dei congegni tecnologici con lo spirito del prigioniero, e cioè detestandoli, combattendoli con tutte le proprie forze, cercando di farne a meno il più possibile e agendo per diffondere coscienza a proposito della deriva in cui la tecnica ci ha confinati, potrà smettere di voler migliorare questo deserto di tossicità e isolamento che chiamiamo civiltà (la prigione) per cominciare a lottare per un mondo diverso (non migliore!): un mondo cioè a “misura di Natura” e non a “misura di Sistema”. Fintanto che invece continueremo a credere nell’onnipotenza tecnologica o a celebrarne la sua parziale positività, la tecnica rimarrà a governare le nostre esistenze e noi, estimatori entusiasti o detrattori possibilisti, continueremo a unirci al coro degli annichiliti che ne vorranno sempre di più.

Ci sono altri termini che ci spingono ad accettare la ‘gabbia’ del Sistema?

Tutto l’apparato propagandistico della civiltà è organizzato su termini e concetti funzionali a questo scopo: basti solo pensare alle carte di credito che ci indebitano, alle guerre diventate “missioni di pace”, agli zoo-lager chiamati “bio-parchi”, ai campi di detenzione ed espulsione degli stranieri definiti “centri di accoglienza” o ai luoghi della città destinati ad ospitare l’accumulo di rifiuti: le isole ecologiche.

Tuttavia, che il linguaggio serva la propaganda di regime è una conoscenza nota, e se stiamo un po’ attenti possiamo svelarne facilmente l’inganno. Più difficile invece è accorgersi di quanto un certo tipo di apparente critica al Sistema serva in realtà a perpetuarne la forza e la legittimità. Mi riferisco a tutte quelle figure politiche o sociali che, nel tempo, da avversarie potenziali del Sistema hanno finito invece con lo svelare tutta la loro funzione di supporto ad esso, ottenendo un certo riconoscimento nel mondo civilizzato: penso, tra gli altri, agli intellettuali, ai sindacalisti, ai politicanti di Sinistra, ma anche ai cosiddetti “alternativi” di oggi.

In che senso queste figure sarebbero di supporto al Sistema?

Sugli intellettuali, Gramsci ci ha delucidato parecchio quando ci ha spiegato che “sono i funzionari addetti al consenso”. Durante la Grande Messinscena del Coronavirus lo abbiamo visto in maniera pacchiana: in linea di massima, gli intellettuali servono il Sistema e servono al Sistema.

Ma anche i sindacalisti sono catalizzatori di consenso verso i valori dominanti, e svolgono da sempre importanti funzioni di “recupero sociale”, e cioè di recupero, alla causa del dominio, delle istanze di chi ci si pone radicalmente contro.

E gli alternativi?

Qui effettivamente serve fare un discorso a parte, che tiene conto dall’incontestabile buona fede che anima la gran parte di loro. Forse sarebbe meglio prendersela con i tanti leader del mondo alternativo, più che con la sua base popolare. In ogni caso, per riprendere lo slogan di prima, si potrebbe usare la stessa ironia per dire che gli alternativi sono una sorta di “rapanelli” di oggi: cambiano i colori (fuori e dentro), ma non il vizio.

Chi sono infatti gli alternativi? Sono tutti coloro che, da rivali della cultura dominante, mentre mostrano di opporvi una prospettiva antagonistica, in realtà non hanno alcuna intenzione di liquidarla. Loro scopo dichiarato è solo quello di perfezionarla un po’ questa cultura: salvarne insomma la sostanza per renderla paradossalmente più accettabile.

Intrisi fin nel profondo dei valori e delle categorie del mondo incivilito, e senza alcuna intenzione di metterli in discussione, gli alternativi si guardano bene dal prendersela con i fondamenti di ciò che dicono di contestare; e facendo ricorso a ossimori (contraddizioni in termini) o a contorsionismi lessicali, finiscono per riabilitare e perpetuare il mondo così com’è.

Per dirla politicamente, gli alternativi sono coloro che vogliono tutto il marcio che c’è di questo Mondo-macchina, di questo Sistema mangia-vita che opprime, addomestica e mira a renderci tutti schiavi, ma lo richiedono migliore. Vogliono l’Economia ma “sostenibile”, la Tecnologia ma “verde”, lo Sfruttamento ma “controllato”. Allo stesso modo vogliono l’Energia “pulita”, la Scienza “olistica”, la Giustizia “giusta”, il Lavoro “dignitoso”, il Consumo “responsabile”. Tanto riproducono la “voce del padrone”, che non biasimano nemmeno la Prostituzione, purché sia autogestita e soggetta al pagamento delle tasse! E persino la Pornografia per loro è perfettamente accettabile: quella “etica”, s’intende!

Gli alternativi, cioè, non si chiedono cosa siano l’Economia, la Tecnologia, l’Energia, la Giustizia, la Scienza, il Lavoro, il Consumo, la Prostituzione, la Pornografia, il Potere. Li vogliono tutti e senza eccezioni, ma solo un po’ più green, slow, eco, ipo, soft, eccetera. Come se bastasse aggiungere un prefisso, un suffisso o un aggettivo qualsiasi per rendere accettabile ciò che non lo è, essi si perdono nel mare terminologico della retorica. E purtroppo non è solo una questione di retorica.

Naturalmente, quel che dico non vale per tutti gli alternativi presi uno a uno, ma sono appunto le considerazioni generali e politiche che debbono essere analizzate quando si guarda a un certo fenomeno; e queste considerazioni generali e politiche mi pare che si attaglino perfettamente alle riduttive aspirazioni riformistiche del movimento alternativo.

Tra le giustificazioni che ci diamo per non uscire dal Sistema c’è anche il bisogno di lavorare per guadagnare. Si può cambiare questa prospettiva?

Ognuno di noi può raccontarsi quel che vuole se intende rimanere un fungibile e insignificante ingranaggio del Sistema. In ogni caso, vale per il Lavoro la stessa cosa che vale per la Tecnologia: in un mondo strutturato dall’Economia è quasi impossibile vivere senza lavorare. Ma lavorare con la consapevolezza che il Lavoro sia una forma di servitù, e dunque disprezzandolo, praticandolo meno possibile e diffondendo una critica radicale contro di esso, è cosa ben diversa dal credere che il Lavoro nobiliti l’uomo o lo renda libero, e quindi dal darlo per scontato, giustificato e considerato persino inevitabile.

Guadagnare non è una finalità naturale, ma culturale.

L’economia, cioè, impone di comprare ciò di cui abbiamo bisogno per vivere, ed è una scienza che si regge sulla divisione del lavoro e sulla cultura dello scambio equivalente (dal baratto alla speculazione finanziaria passando per il commercio). Proprio come la tecnologia, anche l’economia è uno dei fondamenti della civiltà; se vogliamo immaginare un mondo in cui non ci sia bisogno di lavorare per vivere, dobbiamo allora cominciare a mettere in discussione la civiltà, e con essa l’economia. La qual cosa non ci farà smettere di lavorare, ma ci indirizzerà nella prospettiva di combattere il Lavoro, il mondo produttivista che se ne serve e tutte le logiche di mercificazione che ne fanno parte. Fintanto che ci sarà la civiltà, ci sarà l’economia, e dunque ci saranno il denaro, gli scambi, il lavoro e la logica del profitto. E noi continueremo a credere che per vivere si debba guadagnare soldi e dunque si sia costretti a lavorare. Ma non è così. La civiltà mente, inganna, abbindola, affinché tutti restino piegati a giustificarla e a farla andare avanti. Quindi, finché la civiltà andrà avanti, oltre al denaro, agli scambi, al lavoro e alla logica del profitto ci saranno anche i mercati, le banche e i sindacalisti. E non servirà, anche in questo caso, buttare la spazzatura sotto al tappeto e inventare ossimori parlando di denaro “sociale”, di commercio “equo e solidale”, di lavoro “dignitoso” o di banche “etiche”. Perché il denaro è denaro (sposta la relazione dalle persone agli oggetti compravenduti; al valore economico degli oggetti compravenduti), il commercio è commercio (e cioè una logica di mercificazione che ci mette tutti contro tutti), il lavoro è lavoro (ossia una forma moderna di servitù) e le banche sono banche (che di etico non hanno nulla, anche e soprattutto quando diffondono la logica economica nei cosiddetti Paesi poveri, tra la popolazione che ancora non ne è stata conquistata).

Niente ossimori, quindi, ma anche niente furberie. Per risolvere la questione del lavoro (del nostro lavoro), non servirà cioè nemmeno inventare trovate originali per fregare gente senza che se ne accorga, come fanno tutti quei bellimbusti che vanno in giro a pontificare sulla possibilità di vivere senza lavorare, e poi lo fanno a carico di coloro che magari sono venuti a sentirli. Una volta, a questo proposito, girava una barzelletta divertente: Tizio confida a Caio di conoscere il segreto di vivere senza lavorare, e si dichiara disponibile a passargli questa rivelazione se solo Caio gli darà 100 euro. Caio gli dà la somma richiesta e scopre il trucco: basta dire a un grullo qualsiasi che si possiede il segreto di poter vivere senza lavorare e farsi dare 100 euro per quello.

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Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva. Si occupa dello sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva, come professional counselor a mediazione corporea e teatrale

Giornalista, counselor a mediazione espressivo artistica e corporeo teatrale, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.

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