Sdegno, coraggio e fiducia per portare nel mondo la bellezza del Rione Sanità

Sono 36 i figli de La Paranza, bambini nati dai giovani della cooperativa sociale fondata a Napoli nel Rione Sanità nel 2006, che negli anni hanno deciso non solo di restare ma di crescere e mettere su famiglia. Una storia di riscatto, che partendo da un quartiere difficile in cui la speranza di cambiamento era scarsa o nulla, ha fatto il giro del mondo, fino all’annuncio nel 2022, da parte della Commissione Europea ed Europa Nostradel conferimento dell’European Heritage Award, premio per il patrimonio culturale, a La Cooperativa sociale La Paranza (qui la notizia). Nello stesso anno la rivista britannica Time Out inserisce il Rione Sanità, evitato per paura o pregiudizio fino a poco tempo prima dagli stessi napoletani, nella classifica dei 50 quartieri del mondo da visitare.

“Il Rione era invivibile, terra di camorra, il luogo dove non andare – ci racconta Salvatore Illiano, responsabile progettazione Cooperativa La Paranza.

Il percorso verso il cambiamento comincia nel 2001, quando il parroco del Rione, don Antonio Loffredo, 5 chiese e annessi ambienti diroccati, spese di manutenzione e una comunità religiosa dispersa, comincia a lavorare con i giovani del quartiere. Cinque anni dopo, sei di quegli adolescenti coinvolti nella vita della comunità parrocchiale danno vita a La Paranza, riqualificando il patrimonio storico culturale che fa parte di quei luoghi. Nel 2006 si aprono le Catacombe di San Gaudioso, cimitero paleocristiano che si estende sotto la Basilica di Santa Maria della Sanità. Nel 2009, grazie al lavoro della Cooperativa, il pubblico può immergersi nel sottosuolo partenopeo e ammirare la suggestione delle Catacombe di San Gennaro. Nel 2014 un’altra tappa segna la storia di questa rinascita: per rispondere alle istanze del territorio, nasce Fondazione comunità di San Gennaro. Nel 2017 la Basilica di San Severo fuori le mura è riportata agli antichi fasti. E ancora, nel 2022, dopo anni di abbandono, apre la Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi: lo spazio che ospita le opere dello scultore Jago viene restituito al quartiere. È nell’anno appena trascorso, il 2023, che il simbolo della devozione di Napoli verso i defunti, il Cimitero delle Fontanelle, viene affidato alla Cooperativa La Paranza

Salvatore Illiano

“Da statuto La Paranza nasce per dare un’opportunità, anche di lavoro, ai giovani del quartiere, utilizzando i beni storico artistici. Il recupero del patrimonio culturale è fondamentale, ma è il mezzo, l’obiettivo sono le persone”, ci dice Illiano. Con lui e con Daniele Moschetti, 26 anni, guida delle Catacombe e collaboratore nella progettazione, perché “Tutti si è impegnati nelle attività che servono a sviluppare il progetto principale” ci addentriamo nella realtà de La Paranza, che come ci suggerisce Daniele: “non è un modello, ma una bellissima idea che può far risvegliare coscienze”. 

La Cooperativa sociale La Paranza nasce in un quartiere diviso tra contrasti e risorse. Da dove siete partiti per cambiare lo status quo e a che punto siete ora? 

S.I: Si è partiti dai contrasti, perché le risorse, seppur presenti, non erano visibili ma intuibili. Le due grandi potenzialità, che in particolare don Antonio Loffredo, visionario e ispiratore di questo processo aveva compreso, erano da una parte il patrimonio storico artistico che oggi è visitato da centinaia di migliaia di turisti, dall’altra i giovani. I beni storici artistici erano in pessimo stato, chiusi, abbandonati e distrutti, i giovani anche. Ecco perché don Antonio Loffredo diceva: “Napoli va restaurata nelle cose e nello spirito”. Per decenni gli investimenti destinati ai beni materiali non hanno considerato una ricchezza immateriale che è il capitale umano e sociale. 

Catacombe di San Gennaro

Con oltre 220.000 ingressi nel 2023, 70 persone occupate e 13.500 mq di patrimonio recuperato i numeri sono dalla vostra parte. 

S.I: Abbiamo raggiunto altri bei risultati: quest’anno sono nate due cooperative ‘costole’ de La Paranza, una è La sorte che gestisce il museo di Jago nella chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi, riaperta al pubblico dopo 50 anni, e l’altra è la Cooperativa Manità che si occupa della manutenzione e della cura dei luoghi, soprattutto quelli con un valore storico artistico. 

La facciata della chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi e Jago Museum

Da una parte lavorate per il recupero del patrimonio storico e artistico e dall’altra si punta sui giovani.

S.I: L’obiettivo prima di tutto sono le persone. Il caso delle Catacombe di Napoli nel 2023 è entrato a far parte delle 60 migliori pratiche presenti nel catalogo ‘Cultural Heritage in Action’ dell’Unione Europea per fornire alle città e alle regioni d’Europa linee di indirizzo per affrontare le sfide della contemporaneità. Il titolo scelto per le Catacombe di Napoli dice tutto: “Napoli, Italia. Prendersi cura del patrimonio culturale significa prendersi cura delle persone”.  

La Cooperativa nasce per i giovani. Che cosa serve alle nuove generazioni? 

S.I: I giovani hanno bisogno di fiducia, parola magica che è presente nella nostra storia.

Quando si dà fiducia ai ragazzi, soprattutto quelli che hanno avuto meno opportunità, la restituzione è quasi certa.

C’è bisogno di occasioni per liberarsi. Cosa intendo? In alcuni casi il mezzo per la liberazione dell’individuo può essere il lavoro, in altri è l’opportunità di esprimersi. L’importante è innescare la capacità di desiderare. 

Il coraggio di fare

Si legge sul vostro sito una frase di Sant’Agostino “La speranza ha due bellissime figlie: lo sdegno e il coraggio di cambiare le cose così come sono”. 

S.I: Lo sdegno è stata la consapevolezza di quello che era il Rione nei primi anni 2000: invivibile. Per una comunità orgogliosa con un certo senso di appartenenza si può immaginare come questo potesse generare sdegno.

Con l’arrivo di don Antonio Loffredo è arrivato il coraggio di cambiare le cose. Oggi noi vediamo i risultati, ma all’epoca non c’era una sola persona che avrebbe scommesso su questa storia. Con la nascita de La Paranza il coraggio è stato mettersi in gioco, non con una competenza o una parte, ma con la propria vita. Ci sono persone che hanno scelto di intraprendere questo percorso quando chi nasceva al Rione Sanità voleva solo andare via. L’alternativa per chi rimaneva era quasi certamente prendere una strada sbagliata. Si è rimasti facendo qualcosa che andava assolutamente controcorrente. Il coraggio in questo caso lo si può intendere come lo strumento per superare la tendenza tutta italiana dell’immobilismo e del ‘nonsipuotismo’: non si può fare, è troppo difficile.

Si è messo mano a un’opera mastodontica e lo si è fatto con consapevolezza.

Catacombe di San Gaudioso

Perché c’è bisogno di coltivare la speranza?

S.I: La speranza è rigenerante. Una volta che il processo parte non ci si ferma più. Se oggi nel Rione Sanità ci sono giovani che vogliono scegliere la strada giusta, che tra l’altro restituisce al territorio, è perché esiste la speranza di poterlo fare, l’alternativa concreta c’è e si chiama Catacombe di Napoli, un sistema tra l’economico e il sociale che oggi dà opportunità. 

D.M.: È un elastico di lancio per mettersi in moto. Deve essere un motore iniziale, ma bisogna avere il coraggio di saperla concretizzare. Io sono un ragazzo del Rione Sanità, però non ero mai entrato in contatto con il progetto. Ero una di quelle persone che nonostante fosse del quartiere si teneva a distanza da certi meccanismi. Poi ho intrapreso un percorso di studi in archeologia e mi sono reso conto che non mi piaceva il mondo accademico, dove i beni culturali restano solo una bella opera da guardare, lontano dal reale.

Venendo qui come visitatore mi sono reso conto che la Cooperativa La Paranza aveva trovato il modo di rendere i beni culturali qualcosa di generativo, quel mondo che mi aveva disilluso in ambito accademico era applicabile nell’ambito de La Paranza. Era quella formula che stavo cercando, la vera essenza del bene culturale: saperlo utilizzare eticamente per renderlo produttivo. 

Che cosa serve alla tua generazione? 

D.M: Alla mia generazione non serve niente, occorre qualcosa alla vecchia: fidarsi della nuova. La mia generazione vuole credibilità, ma se non ci viene data l’opportunità di dimostrare il proprio valore e le capacità non si viene fuori. Io, ad esempio, sono sempre stato appassionato di grafica e design applicati ai beni culturali e qui per la prima volta mi è stata data l’opportunità di esprimere questa inclinazione. Come me, ci sono tanti ragazzi con altri talenti. Bisogna trovare qualcuno abbastanza coraggioso o folle da fidarsi.  

Oltre il pregiudizio

Quali le maggiori difficoltà incontrate nel quotidiano?

S.I: Le difficoltà iniziali sono state legate al capitale reputazionale, perché potevamo avere anche la stessa offerta che abbiamo oggi in termini di bellezza e di servizi, ma all’inizio era davvero difficile scardinare la reputazione del rione come terra di camorra. La complessità derivava anche da una questione architettonica, risalente a ben due secoli fa, quando fu costruito il ponte che di fatto tagliava fuori dal circuito cittadino il rione. Non occorreva più attraversare il quartiere, che peraltro non conta molte strade di ingresso e di uscita, per raggiungere la reggia di Capodimonte. Il Rione diventava in questo modo un luogo periferico, nonostante fosse situato al centro della città, nel quale la camorra ha potuto prosperare.

Contestualmente si è sviluppata una comunità che si è unita, si sono create relazioni nuove in nome di bisogni e difficoltà comuni. Ancora oggi combattiamo in maniera residuale con qualcuno che ritiene che il Rione Sanità sia il posto più pericoloso al mondo, immaginate 15 anni fa. 

Come valorizzare il territorio in un cui si abita, quando questo è ‘relegato’ a un pregiudizio negativo? 

È stato molto difficile togliere il bollino negativo. Don Antonio Loffredo ha cominciato dialogando con i giovani che per la prima volta hanno incontrato qualcuno che dava loro fiducia. Il modo per creare discontinuità è stato fare viaggiare i ragazzi, isolati dalla città stessa, aprire la finestra per far entrare qualcosa di nuovo.

Il viaggio ancora oggi è uno degli strumenti indispensabili per innescare il desiderio nei giovani e sostenerli nella crescita.

Crescere come comunità

Nella vostra esperienza quanto conta il dialogo fra terzo settore, pubblico e privato? 

Le risorse finanziarie arrivano da privati. Innanzitutto, per scelta, perché non si può legare, soprattutto nel terzo settore, processi che vogliono generare uno sviluppo economico e sociale continuativo a un sistema che è quello delle risorse pubbliche e degli affidamenti che sono necessariamente a singhiozzo, precarie e senza una programmazione lunga.

C’è la volontà di puntare sull’imprenditorialità sociale e fare impresa con i giovani in una maniera diversa ispirandosi ai principi dell’economia civile.

In questo modo ci si tiene distanti da un sistema clientelare oltre che un orizzonte poco sicuro e si lavora con la comunità di cui i privati sono soggetti fondamentali. I privati che vogliono donare ci sono, ma per qualcosa che generi un impatto vero. Negli anni abbiamo incrociato molte realtà, fra tutti Fondazione con il Sud, senza la quale non sarebbe stato possibile il progetto delle Catacombe di Napoli e del Cimitero delle Fontanelle. Anche il singolo visitatore fa parte della nostra ‘comunità di patrimonio’, così come la definisce la Convenzione di Faro, ed è decisivo non solo per le risorse finanziarie ma per la comune eredità culturale.

Chi si occupa di comunità la sceglie così come è. Siamo riconosciuti come una delle principali comunità patrimoniali di Europa. La vera bravura è stata il decidere che la ricchezza creata dovesse essere destinata alla crescita dei giovani del quartiere e al rafforzamento della coesione sociale. Oggi ci sono 70 persone impegnate stabilmente nella cooperativa di cui l’80% sono giovani del quartiere, molti dei quali non avrebbero avuto altre opportunità, è questo che crea comunità e che permette di crescere. 

Aprire la finestra mette in circolo le idee

Dare un respiro internazionale al Rione. Lo sguardo all’estero che cosa restituisce? 

D. M.: Da un lato confronto e dall’altro legame. Molto spesso i contatti che abbiamo avuto con realtà europee – mi viene in mente la Residenza per giovani europei che si svolta nel Rione Sanità e che ha riunito 16 giovani europei a Napoli impegnati nella tutela nel recupero e nella valorizzazione di beni culturali – è stata una fucina di idee. Persone che se non avessero avuto l’occasione di incontrarsi ed essere comunemente assieme in quel momento non avrebbero potuto condividere impressioni. Un’idea se non è messa a disposizione non è funzionale. Io che sono nato e cresciuto in una determinata realtà la vedo in un modo unico, ma una persona esterna può produrre un’immagine totalmente nuova per me e se me la dona può farmi generare ancora di più.

Occorre aprire la finestra per fare entrare aria nuova.

Tanto vogliamo portare nostre idee fuori tanto quelle degli altri dentro. Le idee nuove si possono generare con contatti nuovi. Questo serve anche alle persone del Rione per allargare il proprio sentimento oltre i confini nazionali e comprendere che quelli che erano problemi e ora sono risorse vengono considerati non solo a livelli cittadini e nazionali ma anche fuori dall’Italia. 

Un elemento di valore nella comunicazione de La Paranza è stato fare conoscere le storie del quartiere e delle persone. 

S.I.: Quando si parla di programmi complessi rivolti a più soggetti spesso ci si perde e le persone diventano numeri. In questa storia era decisivo e funzionale al successo che nella storia del Rione e dei giovani della Paranza figurasse quella personale di riscatto di ognuno. La Paranza vuole garantire la possibilità di fare stare bene tutti, in particolare i giovani del quartiere.  

Educare alla bellezza per generare eticamente valore

L’arte e la cultura sono due elementi che caratterizzano la vostra attività. Quanto e in che modo la bellezza contribuisce alla crescita della società? 

D.M: Serve a fare capire che ciò che si dà per scontato non lo è. Molto spesso si dà per ovvio il valore di quello che si ha. In contesti come quello del Rione Sanità che è pieno di bellezza gli abitanti non la sapevano riconoscere perché era stato detto loro che non c’era.

Poi sono arrivate persone che hanno detto: “Guarda che qui c’è la bellezza, ce l’hai sotto i piedi, ce l’hai intorno…”.

Prima magari qualcuno si poteva vergognare di abitare qui non conoscendo la bellezza che c’era, ora con orgoglio può affermare di essere del Rione Sanità. Se si hanno gli strumenti per comprendere la bellezza, si intuisce il valore etico dei beni culturali, un mezzo che, se utilizzato con moralità, genera bene e riscatto. 

S.I: La percezione della bellezza non è naturale. Si educa all’arte come si educano le persone alle relazioni. L’educazione alla bellezza è il primo passo per far parte di una comunità di patrimonio, perché si decide di avere una comune eredità culturale, ma va riconosciuta, c’è un lavoro da fare perché questo non succede automaticamente. Sdegno e coraggio se non si fa educazione alla bellezza non arrivano mai. 

Tra recupero di siti archeologici restituiti alla città e ragazzi occupati nella cooperativa vi ritenete un esempio da replicare in altri luoghi e contesti? 

S.I: Non siamo un modello replicabile, forse un metodo. Innanzitutto, occorre coinvolgere i giovani. Antonio Loffredo da principio ha creato un legame con i ragazzi di questo quartiere offrendo loro una fiducia reale. In secondo luogo, bisogna puntare sui processi culturali. Occorre far crescere i minori in spazi generativi per le relazioni e per le attitudini che ha ognuno. È necessario investire sull’imprenditorialità sociale. Ci sono realtà che non hanno le risorse storico artistiche ma c’è altro: lavorando sull’economia civile si rendono i giovani non agenti passivi di un sistema assistenzialistico ma soggetti attivi del loro destino e di quello della collettività. I soci cooperatori sono imprenditori ma dal punto di vista etico condividono la responsabilità insieme ad altri. Un po’ di sana responsabilizzazione è quello di cui c’è bisogno per far rialzare i territori. Il tema vero è dare potere alle comunità, ed è quello che succede qua e non altrove. 
La domanda è: “C’è un modo diverso in cui si dovrebbe gestire un bene culturale?”.

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Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.

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