Selene Calloni Williams primo piano sorridente, con capelli sciolti e occhiali
Selene Calloni Williams

Libertà è pura esperienza

Descrivere Selene Calloni Williams dopo averla incontrata non è compito semplice, la parola che forse sintetizza meglio il suo essere è ‘sciamana’.
Guida spirituale, life coach, esperta di psicologia, yoga, filosofia, antropologia e, appunto, sciamanesimo. Il suo pensiero, il suo modo di essere, il suo lavoro per risvegliare le coscienze verso gradi di liberazione dai condizionamenti, sono un punto di incontro tra Oriente ad Occidente e da entrambi i mondi arrivano i suoi maestri: dallo psicologo e filosofo svizzero James Hillman, all’esperto di yoga e tradizioni sciamaniche Michael Williams, di etnia Tamil.

Sulla base della psicologia archetipica del primo e degli insegnamenti sciamanici del secondo, ha dato vita anche alla scuola italo-svizzera degli immaginalisti: una scuola che non ha una sede fisica, ma è fatta di esperienze, eventi e incontri nel mondo dedicati al processo di evoluzione di sé, del ‘fare anima’: “del cammino che trasforma paure e limiti nel ‘fuoco psichico’ della grande energia creativa e dona il potere della visione immaginale”.
Quello con cui vivere liberamente propria vita.

Selene, dici che è necessario guarire dalla normalità? Che cos’è la normalità?

La normalità è il luogo comune, la credenza mentale. La mente razionale è un cumulo di credenze e ci tiene come dei burattini su binari favorevoli più che altro alla società, all’economia, al sistema, ma non all’anima, all’individuo. Uscire dalla mente analitica significa ritrovare un pensiero del cuore, una mente che oggi si definisce ‘complessa’, capace di vedere la parte nel tutto, il tutto nella parte; capace di funzionare in armonia con il cuore, con la fede, che sono i più grandi poteri che abbiamo.

Il luogo comune è qualcosa a cui si aderisce senza mettere in dubbio, mentre il dubbio è la forma più alta dell’espressione dell’intelligenza umana rispetto ai luoghi comuni, condizionati e condizionanti.

Il luogo comune è una falsa verità e quindi è la più grande bugia. Libertà è andare oltre.

Spesso rinunciamo a questa libertà in nome della ‘comodità’, del sentirsi ‘protetti’ in un gruppo. Andare al di là è una scelta possibile per tutti?

È una presa di decisione, anche se oggi le tecnologie, i social, la rendono più difficile. C’è una diffusione su larga scala delle informazioni, superficiali: quello che conta dell’informazione non è tanto avervi accesso, quanto la capacità di elaborarla, senza questa capacità si creano più facilmente fazioni guidate da questi luoghi comuni che assumono tutte le forme sia quelle pro, sia quelle contro il sistema.

Un giorno, il mio maestro di meditazione, il venerabile Gata Thera, mi fece mettere a gambe incrociate, immobile; io avevo molto male a un ginocchio perché ero caduta, ero preoccupatissima, gli chiesi se stare così non mi danneggiasse l’articolazione perché già avevo avuto una fuoriuscita del liquido sinoviale, temevo che la cartilagine potesse danneggiarsi… Lui mi disse: ‘Selene, tu hai mai visto dentro al tuo ginocchio tutte queste cose?’.

Il dubbio che ci ‘salva’

La mia risposta fu no e lui continuò: “Bene, allora perché dai per scontata l’esistenza di queste cose? Chiudi gli occhi che guardano fuori e, fintanto che non si aprono quelli che guardano dentro e non vedi cosa c’è, non devi credere, devi applicare la forma più alta dell’intelligenza: il dubbio”.

Cosa hai visto con gli occhi che guardano ‘dentro’?

Effettivamente, la mia visione è stata simile a quella di cui ci parla il Buddha: il corpo è un arcobaleno di colori, dove la forma e la vacuità, come diceva Nagârjuna (monaco e filosofo buddhista indiano, ndr), coincidono: quello del corpo anatomico è un modello mentale a cui tutti aderiscono ciecamente, ma persino quello di avere un ginocchio o un cuore inteso come oggetto materiale è un luogo comune; Jung diceva gli organi sono gli ‘dèi’.
Si può dire che la scienza sia diventata una religione, anzi, che forse sia l’unica religione salvifica rimasta ancora dogmatica. È una credenza diventata certezza e le nostre certezze sono le nostre più grandi bugie.

Questo spazio del dubbio è anche quello in cui possiamo incontrare l’altro?

Incontriamo l’altro dentro di noi, perché è una nostra proiezione, lo incontriamo andando al di là dell’Io, che poi è anche andare al di là del Tu, e mettendoci al centro della relazione.
Questo processo nella psicologia immaginale viene chiamato depersonalizzazione dell’esperienza: se accarezzo il mio cagnolino e mi identifico nell’‘io accarezzo’ ho un tipo di esperienza; se mi identifico nel mio cagnolino che viene accarezzato, ho un altro tipo di esperienza; ma se mi metto al centro della relazione, sono la pura azione dell’accarezzare, al di là di soggetto e oggetto, dove si esprime veramente la vita. È lì che comprendo che cosa voglia dire accarezzare, il piacere e l’amore.

L’uomo diventa un dio, quando rinuncia all’Io e al Tu.

Incontrare l’altro, come direbbe Aurobindo, è trovare la vita divina, nella pura esperienza. È un po’ complesso, ma quando lo si fa diventa semplicissimo. All’inizio ci si deve impegnare, poi diviene una sorta di ‘potere automatico’, come diceva ancora Aurobindo; perché la psiche apprende e automaticamente si mette al centro in tutte le relazioni, si identifica nella pura passione, emozione, nel puro sentire, che poi è il dio, la dea.

Stare nella ‘pura esperienza’ richiama le parole presente e non giudizio.

Assolutamente. Fintanto che io sono identificata nell’Io, giudico; anche se mi metto nei panni del Tu. L’Io è giudizio, analisi: è la mente. Quello che filosoficamente parlando chiamiamo mente, psicologicamente parlando è l’Io.

Vivere nel non giudizio

Ormai da quasi quarant’anni faccio una professione basata sulla relazione d’aiuto, opero nel campo della psicologia immaginale, del coaching, del counseling, insegno lo yoga, vedo i miei allievi e tutti, ma proprio tutti, i problemi sono riconducibili all’identità con il senso dell’Io. Le persone che diventano vittime di una situazione si narrano la propria storia attraverso le lenti dell’analisi, del giusto e sbagliato, del buono e cattivo.

Come si fa a non giudicare quello che ci accade?

Ti faccio un esempio banale, se la mattina ti svegli con il dolore al collo e sei identificato con la mente, questa subito analizza: è così perché ho dormito male, ho aperto la finestra… stai controllando l’esperienza, hai scelto il potere, sei vittima della situazione. Se invece riesci a identificarti nella pura sensazione, un formicolio, una fiamma, una vibrazione… è pura energia. E allora perché devi diventarne vittima? Se fai un respiro e semplicemente ascolti quello che senti, scegli l’amore, scegli semplicemente di includere questa sensazione.

In ogni istante della vita abbiamo questa scelta, a ogni respiro, possiamo scegliere l’amore o il potere. Viviamo in una società che ha scelto il potere, ma nulla vieta al singolo individuo di dissociarsi e scegliere l’amore.

Come agisce su di noi stare nel sentire?

La sensazione diventa priva di analisi, libera, potentissima e c’è sempre un istante in cui, come una diga, la mente crolla travolta dalla potenza della sensazione. In una frazione di secondo, come dicono tutti i mantra del respiro, tu sei ‘quello’; poi magari la sensazione ricomincia, ma nell’istante che hai vissuto passano talmente tante informazioni, conoscenze ed energie che nei mesi e negli anni a venire si manifestano. L’unico modo per fare il foro nella diga è non analizzare, avere il coraggio di vivere l’esperienza con il cuore puro.

Le persone sono vittime del modo in cui si narrano le cose, non delle cose in sé.

Il tuo maestro Hillman diceva che accettiamo degli ‘invisibili’ –  come il successo o valori familiari -, mentre rinneghiamo l’unico che può riempire di pienezza di essere la nostra vita, quello che chiama ‘daimon’: una vocazione che è in noi sin dalla nascita.

Qui veniamo al problema fondamentale dell’umanità. Non è più in relazione con l’invisibile, perché vuole il potere, il controllo: non puoi avere il controllo sull’invisibile allora lo elimini. Per Jung, gli organi sono gli dèi, cosa significa? Il cuore è la pura possibilità di amare, il cervello la pura possibilità di conoscere, l’intestino di assimilare, il fegato di perdonare, i reni di purificare, i polmoni di essere in relazione. Com’è che li trasformiamo in oggetti materiali, attraverso i sensi controllati dalla mente? Perché vogliamo il controllo, ma trasformando il corpo in un oggetto materiale ci condanniamo a morire, perché l’oggetto materiale muore.

A me questa sembra una psicopatologia di massa, da cui uno sano si deve dissociare, ecco perché il luogo comune è il più grande nemico del mistico, piano piano si deve superare tutta questa follia e scegliere l’amore.

Chi sono gli dèi e come agiscono nella nostra vita?

Gli dèi, dal greco eidola, sono le immagini, sono gli eventi. I buddisti parlano del Dharmakāya, il corpo degli insegnamenti del Buddha: tutto quello che ci accade è un insegnamento, è un simbolo, è un’immagine, è un dio. Viviamo in un ‘mundus immaginalis’, in cui l’evento è simbolo.

Gli dèi sono gli eventi, le emozioni che viviamo.

Come agiscono allora questi dèi, queste emozioni nella nostra vita?

Le emozioni sono strumenti evolutivi, quelli del fare anima. La natura è una grande spinta evolutiva, in un movimento verso gradi di libertà sempre più elevati e le emozioni sono strumenti fondamentali di questo processo, a patto di viverle con cuore puro, libero dal giudizio. Prendi la dolce tristezza, come si chiama nel wabi sabi, come dicono i giapponesi, è una dea meravigliosa: è Ecate in persona, è Ermes – la traghettatrice, il traghettatore -, ti porta nell’under world, ti fa fare il viaggio negli inferi, dove vai a prendere tesori, talenti, idee, energie, creatività e poi risali.

Vediamo un’altra emozione…

La rabbia altro dio pazzesco, Ares, grandioso, ti aiuta a bruciare la mente se riesci a viverla senza analizzarla e darne spiegazioni, ‘sono arrabbiato con lui perché…’. Lascia andare, senti solo la rabbia; non agirla, perché se la agisci la sciupi, vivila liberamente perché se la giudichi negativamente ne hai paura e finisce che ti fa del male, ti ammala.
Se riesci a non costruirle intorno una storia, semplicemente vivi la pura relazione con il ‘dio’, è una energia tale e tanta che dissolve la mente e ti porta a un grado di libertà superiore.

Le emozioni sono qua per liberarci da una mente patricentrica, iper-razionale.

La scelta del potere, del controllo, e la mente iper-razionale sono la stessa cosa. Il problema è che le persone non le sanno vivere e non permettono al divino la sua funzione di salvatore.

Trovare sé mettendo in atto il ‘come se’

Quanto conta creare ambiti protetti, come quelli in cui si lavora nei gruppi che conduci, in cui provare a rivivere questi eventi ed emozioni in modo ‘libero’?
Immagine di Selene Calloni Williams ritratta in mezzo a fiori e piante
Selene Calloni Williams

È molto importante creare queste situazioni protette, la famiglia di meditazione, quella che i buddisti chiamano il Sangha, il triplice gioiello in cui prendere rifugio: il maestro, l’insegnamento, la comunità degli esseri risvegliati. Creare l’ambiente, l’atmosfera, il rituale. Anche la vita è rituale, perché è simbolo; ma se in quello sacro, psicologico o spirituale sei consapevole di mettere in atto un rituale, nella vita la mente prende tutto alla lettera – la grande ‘letteralizzatrice’ diceva Hillman -, come se capitasse per davvero, mentre tutto è solo come se fosse vero.

Di qui la grande importanza di queste pratiche, perché la strada può sembrare semplice, addirittura elementare: non giudicare e vivere la pura emozione, darsi con fede all’evento che è ente, entità, spirito, al dio che ti libera ed è fatta. Ma questo comporta un coraggio pazzesco e il coraggio è la conseguenza dell’essersi sentiti amati. Non tutti nell’infanzia abbiamo avuto esperienze di forte accoglienza e amore, alcuni si portano ferite tremende, anche da vite precedenti: sono in difensiva e se dici loro “apriti all’evento senza giudicare” non ce la fanno, perché hanno paura e passano subito al controllo.

Il rituale può aiutare tantissimo a raggiungere gradi di libertà superiore: è dichiarato che è solo come se fosse vero e ci si può lasciare andare.

Poi, si scopre che anche tutta la vita è solo come se fosse vera e tutte le abilità apprese nel rituale si trasmettono al suo interno.

Dici che questa rivoluzione della coscienza, dal potere all’amore, è una rivoluzione del femminile.
La notte porte con sé l’oscurità…

Anche qui, pensa a quanto ci ingannano, che cos’è il femminile? Non è la donna: è la notte, la lunarità, la morte, la dissoluzione. È l’irrazionale. Tanto è vero che nelle civiltà matricentriche, come quelle Inca o Maja, si praticavano i sacrifici umani.

L’oscurità non è assenza di luce e l’abbiamo visto nell’eclisse (quella dell’8 aprile 2024, ndr), che ci ha permesso di vedere l’alone del sole, le esplosioni sulla sua superficie, che non possiamo vedere a meno che il sole non sia coperto.

Il femminile è quello che ci permette di vedere tutto quello che il maschile non ci fa vedere.

La vera rivoluzione è essere capaci di fare il viaggio ‘ctonio’, sotterraneo, di scendere nell’infero, nell’anima, nelle emozioni come la dolce tristezza, l’evanescenza, l’impermanenza, la fragilità, l’insicurezza che rappresentano il femminile e che questo mondo aborre.

Una donna che diventa capo di stato o dell’azienda tal dei tali non esprime la vittoria del femminile, tutt’altro, perché la vittoria del femminile è comprendere le ragioni dell’irrazionale, la funzione fondamentale dell’anima, dell’ombra, che in questo mondo non vengono capite, ma emarginate e un mondo così non può che diventare sempre più violento.

Può prevalere in un mondo come quello in cui viviamo oggi questo ‘principio’ femminile?

Deve riuscire a prevalere, anche nel maschio, per portare un equilibrio. Anche se probabilmente non accadrà, perché come diceva Leopardi, ogni civiltà conosce un ciclo, arriva al suo estremo e l’estremo della nostra società è il patricentrismo, l’iper-razionalità che reprime totalmente il femminile. Le civiltà, come gli individui, conoscono i loro cicli e prima o poi muoiono.

Ti cito ancora, ‘non esiste una vittoria dell’uomo’ se non c’è sacralità della natura’.

Innanzitutto, l’individuo comunemente non sa nemmeno che cos’è la natura. Aristotele diceva ‘è un non ente’, cosa avrà voluto significare? Perché devo pensare che la natura sia l’albero e non per esempio la tecnologia, perché questa distinzione tra cultura e natura? La cultura è prodotta dal cervello umano, che fino a prova contraria è stato fatto da madre natura. Vedi anche qui il patricentrismo che vuole dominare e crea separazioni dove non ci sono.

Allora cos’è la natura?

Innanzitutto, è bellezza e la bellezza esprime l’amore, la capacità di darsi. Tutto in natura è evanescente, Eraclito diceva ‘un uomo non può bagnarsi due volte in uno stesso fiume’, la natura è questa impermanenza continua che poi si esprime appunto come bellezza, come amore, fondamentalmente, è il femminile. Tutto può essere natura, anche la tecnologia, dipende da come la si vive: se si è integri dentro, se l’animus e l’anima, la parte maschile e quella femminile, sono integri, allora lo strumento conduce alla libertà. Ma se dentro di sé non si è integri, lo strumento crea sempre più schiavitù.

Che cos’è per te il ‘quoziente humano’?

È una bellissima espressione, perché esseri umani non si nasce, si diventa a mano a mano che ci si ritrova nell’identità con il tutto, con il cosmo, che si supera l’illusione della separazione. Questo si capisce molto bene quando si fa lo yoga del colophon, uno degli yoga sciamanici. La parola colophon in italiano indica l’ultimo segno o il primo di un libro; nello yoga indica l’attraversamento della grande soglia.

A memoria di umanità

Questo si ritrova nello yoga del colophon, ispirato al Bardo Tösgrol, il libro tibetano dei morti, ma anche nella tradizione orfica: nelle lamine orfiche che mettevano in bocca al morente c’era l’indicazione ‘non dimenticare’.

Il morente non doveva bere dal primo fiume che incontrava, il Lete, perché dimenticava tutto, doveva aspettare e bere dal secondo, Mnemosine, la memoria; nel Bardo Tösgrol si dice che quando muori non devi avere paura, se hai paura cadi nella fossa dell’inconsapevolezza e dimentichi, diversamente fai un transito cosciente. Non è l’Io che sopravvive ma una consapevolezza più vasta in sé, i cristiani dicono l’anima: l’anima resta cosciente nel transito, ma quando ti reincarni, quando entri nella matrice, nell’utero, c’è un momento in cui dimentichi.

Naropa (mistico e monaco buddista indiano, ndr) diceva che si può stare in contatto col morente per tutto lo stato intermedio, dalla morte alla successiva rinascita, ma quando è nell’utero c’è un momento in cui dimentica.

Diventare essere umani è ricordare chi sei, la missione dell’anima, cosa sei venuto a fare.

Questo per me è il quoziente humano, la capacità di ricordare chi sei.
Nello yoga sciamanico usiamo un mantra che si dice sia stata l’ultima parola pronunciata dal Buddha prima di morire: ‘sammasati’: ‘ricorda chi sei’. Ricorda che sei un Buddha, ricorda che sei un risvegliato. Ecco, il quoziente humano, secondo me, è un quoziente di memoria. L’esperienza spirituale non è creare qualcosa che non c’è, non è raggiungere qualcosa che non è parte di te, ma semplicemente ricordare qualcosa che è già qui dentro di te.

Selene, chi è lo sciamano?

Lo sciamano è il poeta, quello capace di prendere la narrazione dissolverla e rigenerarla. Lo sciamano fa questo tutte le volte che ce n’è bisogno. Per esempio, se qualcuno è malato, lo sciamano non cura la malattia o l’individuo, prende tutta la narrazione dell’universo e ricrea un universo in cui la malattia non è presente, e questa è la stessa cosa che fa il poeta.

Lo sciamano è un poeta che applica la dote demiurgica non a una esperienza puramente estetica, ma a una esperienza spirituale che ha come fine la libertà.

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