Patrizia Laquidara crediti foto: Giulia Barbieri

Narrare cantando “per essere il più possibile veri”

Dal cantautorato pop a un album in dialetto vicentino, dalle sonorità sfumate della musica brasiliana al teatro civile di Marco Paolini: il percorso artistico di Patrizia Laquidara è segnato dalla contaminazione tra generi, immaginari e lingue. A fare da filo conduttore nella sua vasta produzione è la narrazione. “Quando canto mi piace raccontare”, dice richiamando la figura senza tempo dei cantastorie. Una vocazione che ha trovato sfogo nel romanzo Ti ho vista ieri, da poco pubblicato per Neri Pozza.

Il tuo romanzo è affollato di voci e immagini appartenenti al tuo passato eppure il lettore non fa fatica a rispecchiarvisi. Come è possibile questa sovrapposizione?

Perché il libro che ho scritto non vuole essere un amarcord strettamente nostalgico e autobiografico ma ritrae lo spaccato di un’Italia attaccata alla coda del Novecento, a partire dagli anni Settanta in poi, una società colta nei suoi cambiamenti, nelle sue migrazioni interne da Sud a Nord e viceversa. Credo che sia per questo che le voci dei personaggi suonano ancora vive e parlino al presente.

Oggi lo storytelling è spesso affidato alle immagini veicolate dai social. Perché è importante non perdere la dimensione sonora della propria memoria?

Le immagini, secondo me, hanno meno forza del suono. Se potessimo scegliere tra tenere tra le mani una vecchia foto dei nostri genitori o di poter riascoltare le loro voci registrate, credo che sceglieremmo la seconda opzione. La voce e il suono hanno una potenza enorme e irriducibile.  

A proposito di “fotografie sonore”, qual è l’istantanea che ti ha avvicinata alla musica?

Da piccola mia madre mi portava spesso al mercato di Catania. Ricordo distintamente la mattina in cui mi sono fermata davanti al bancone di un pescatore: aveva il grembiule sporco di sangue e cantava con voce ruvida un canto popolare. Quella voce intinta nel sangue è stata una specie di iniziazione, di seconda nascita: la mia venuta al mondo come cantante.

Dalla Sicilia sei stata catapultata in Veneto. Nella tua formazione artistica che valore hanno rappresentato il distacco dalla propria terra natale e il doversi ricostruire?

Spostarsi è un’esperienza in qualche modo traumatica. Ho sempre pensato che mio padre l’abbia vissuta come una deportazione. Quando ci siamo trasferiti in Veneto ho balbettato per un anno, ma ho scoperto presto che cantando, chiusa in una stanza, il balbettio si scioglieva. Con il disco il ‘Canto dell’Anguana’, in dialetto vicentino, ho riconosciuto il Veneto come casa. Nel libro ‘Le vie dei canti’ di Chatwin si dice, infatti, che si può appartenere a una terra solo dopo che la si è   cantata.

La tua identità di cantante è multi-culturale, con una particolare vocazione per la musica brasiliana. Da dove nasce questa predilezione?

Me lo sono chiesta spesso. Il Brasile ha un bacino immenso di canzoni, canzoni belle per struttura, melodie, testi, armonie.  Di molta musica brasiliana (non solo la bossa nova) apprezzo quel suo essere sul filo, quel mettere insieme leggerezza e profondità. Questa cosa capita quando ascolto João Gilberto, sentirlo è come stare affacciati su un abisso: la voce di Joao è zen.  La musica brasiliana è spesso sussurrata nella bossa nova mentre le canzoni popolari, che pure sento mie, sono muscolari, quasi gridate.

Ti senti più cantautrice o interprete?

Sono due ruoli che si completano a vicenda. Mi appaga di più interpretare perché mi avvicino a un mondo che non conosco e infatti quando mi esibisco devo impormi di cantare i miei pezzi. Col tempo il mio percorso da interprete si è avvicinato sempre più a quello della cantautrice.

Nella tua carriera hai spaziato tra generi e mondi musicali eterogenei. Qual è quello che ti rappresenta di più?

Non ce n’è uno in particolare. In questo periodo il mio sound è dato dall’album Manga di Mayra Andrade, una bella mistura tra melodie tradizionali e suoni contemporanei.

Al fianco di Marco Paolini fino a febbraio sarai in tournée con lo spettacolo Boomers. Come è nata la collaborazione?

Io e Marco ci conosciamo da anni, abitiamo entrambi in Veneto ed è capitato in passato di incontrarci intorno a un tavolo con personaggi come Mario Rigoni Stern. Dopo aver visto il mio spettacolo-reading intitolato “Ti ho vista ieri In Musica”, ha deciso di affidarmi la parte musicale di Boomers. Jole, il personaggio che interpreto cantando e recitando, fa da contraltare al teatro impegnato di Paolini, dona un tocco di leggerezza e mitologia.

Come reputi la scena contemporanea del cantautorato al femminile?

Grazie a nomi come Margherita Vicario, Daniela Pes e Levante sta emergendo sempre di più. Come è accaduto in altri ambiti artistici, pensiamo alla poesia con Patrizia Cavalli, Viviane Lamarque o Mariangela Gualtieri, le voci femminili stanno prendendo corpo e parola.

Quella metà dell’umanità che per tanto tempo è rimasta muta ora può finalmente parlare.

A chi si deve questo cambio di passo?

Alle tante donne che non hanno mai rinunciato a dire la loro, che non sono state zitte.

Qual è secondo te il ruolo sociale dell’artista nella nostra epoca?

Quello di dare una visione “altra”, di mescolare le cose. Nell’arte non cerco la cronaca e nemmeno la consolazione, ma una nuova prospettiva e nuovi punti di domande. Credo che ognuno debba partire dal proprio vissuto, dall’esperienza di una vita, al di là dall’essere donna o uomo. Per questo vorrei tentare di essere il più vera possibile, con me stessa e con il mio pubblico.

Progetti per il futuro?

Sto lavorando a un nuovo album. A dicembre andrò a Lisbona per cominciare la mia collaborazione con un giovane arrangiatore portoghese. Niente che sia lusitano nel sound, bensì globale. Vorrei mescolare elettronica con strumenti acustici, magari con le canzoni nate dai personaggi del mio libro ‘Ti ho vista ieri’.

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