Bruno Jorge

A Invenção do Outro, alla scoperta della natura umana 

Un’immersione nell’essenza dell’essere umano, un viaggio alla scoperta dell’altro e di sé.
A Invenção do Outro di Bruno Jorge, votato come miglior documentario della decima edizione di Agenda Brasil Milano 2023, pluri-premiato al 55° Festival di Brasilia e al Festival Ecofalante di San Paolo, segue una delle più grandi spedizioni della FUNAI (Fundação Nacional do Índio) realizzata nel 2019, per promuovere il ricongiungimento tra un gruppo di indigeni isolati dell’etnia Korubo e altri membri della stessa famiglia. Il film va all’origine dell’uomo e racconta la forza delle emozioni e l’impatto della cultura sulla natura, indagando la possibilità di riallacciare legami quasi perduti. 

Gli indigeni e i non indigeni rappresentano uno specchio di ciò che siamo e di ciò che riflettiamo. “Tanto più non trasformiamo l’altro in una conoscenza intima dentro di noi, tanto più ci spaventa” afferma il regista in questa intervista a Quoziente Humano, all’indomani della proiezione del suo film a Milano. Il documentario, che offre diversi spunti di riflessione, registra una delle ultime azioni dell’indigenista Bruno Pereira, assassinato durante una missione nel 2022. 

A Invenção do Outro ti vede regista, sceneggiatore e montatore. La decisione di fare un film indipendente è possibile? È sostenibile nel tempo? 

Lo sto scoprendo di giorno in giorno. Sto imparando a vivere in modo più sostenibile, è una scelta che ho fatto 5 anni fa, per la quale ho cambiato la struttura della mia vita, ad esempio decidendo di andare ad abitare in una città più economica e meno cara di San Paolo. È un percorso. Ho smesso di accettare alcuni lavori commissionati per realizzare film indipendenti e lo faccio non perché sia ricco, non sono un banchiere. Ho creato delle condizioni austere che fossero sostenibili per poter seguire questa scelta di vita, sia la sobrietà come stile di vita sia l’accumulare tutte le funzioni: se dovessi pagare tutti i professionisti per realizzare il film,non ci sarebbe budget, così utilizzo le mie risorse.

È una scelta che implica una grande rinuncia, va anche contro la cultura attuale, è una decisione che abbraccia l’indipendenza politica ed economica. 

La forza delle emozioni

Nel tuo film le emozioni che accomunano tutti gli esseri umani sono comunicate dal gruppo degli indigeni in maniera dirompente, senza barriere. Quanto noi ‘civilizzati’ abbiamo perso nell’espressione di noi?

È difficile rispondere, credo che questo abbia a che fare con la connessione, perché noi ‘civilizzati’ siamo più interdipendenti dall’altro. Grazie allo stato di isolamento gli indigeni sono emancipati rispetto allo sguardo della società. 

Nel documentario gli indigeni si comportano come se non provassero la vergogna, un’emozione che può dare dei limiti sia nel bene sia nel male.

Lo sguardo dell’altro è condizionante e dà delle limitazioni, per gli indigeni tutto succede in modo più naturale. Quando si avvicinano alla società civile cominciano ad avere più pudore, fa parte del processo di acculturazione. Fra gli indigeni, alcuni avevano avuto contatto con i civili e già abitavano vicino la base e durante le riprese indossavano pantaloncini, tra di loro si schernivano: “Ah tu sei l’indio mutande!” o piuttosto “Tu sei l’indio biscotto!” se a colazione mangiavano biscotti. 

C’è un dopo… 

Questi indigeni oggi non sono più isolati, perché tutti quelli che abbiamo incontrato si sono avvicinati alla base della Funai. Quasi il 100% di questi indigeni che ha avuto contatto con i civili ha preferito non stare più nella foresta e condurre una vita più sedentaria vicino alla base. Ora non cacciano e non pescano più come un tempo. Il delicato equilibrio per la Funai sta nel tenere le giuste distanze in modo da rispettare il loro modo di vivere, così che non si trasformino in persone che abitano in città. Quando si ammalano, ad esempio, questi indigeni attualmente non ricorrono più alla conoscenza ancestrale medica e alle risorse naturali che utilizzavano, vanno alla base della Funai e chiedono i farmaci. Pensano che l’aspirina sia magica! Il medico della Funai chiede loro: “Come facevi prima? Se hai un modo per curarti usa quello!”.  È una strategia per ridurre il processo di acculturamento. 

La dicotomia natura e cultura

Nel documentario gli indigeni raccontano i legami familiari, ancora una volta con grande forza. Il rapporto che unisce una mamma a un figlio o due fratelli si può dire universale o noi occidentali abbiamo proiettato in questi ruoli qualcosa che va oltre la natura? 

Gli indigeni hanno una relazione simbiotica con la natura, noi occidentali siamo separati e distanziati. Il fatto di vivere in armonia nella natura fa sì che tutto avvenga in modo più spontaneo.

Con la civilizzazione abbiamo contrapposto la natura alla cultura, l’essenza agli accidenti, siamo nel cuore della filosofia greca, che diede origine al pensiero occidentale. 

L’America Latina attraverso gli indigeni ha reinserito la natura nella discussione. Mentre noi occidentali stiamo in questa contrapposizione, gli indigeni sono nell’unità. 

Noi siamo molto separati, dopo natura e cultura è arrivata la dicotomia ragione e sentimento. 

La società occidentale vive una monocultura della conoscenza, basata sul razionalismo, come se producessimo sapere solo tramite la ragione, come se non esistesse un altro modo di abitare e vivere il mondo. 

Gli indigeni quando si avvicinano all’altro pur nella prima diffidenza fanno un atto di grande fiducia…

La fiducia è stata facilitata dagli intermediari, quel gruppo di indigeni che si era allontanato e poi è tornato per ricongiungersi ha favorito la connessione. Credo che la fiducia che dimostrano nel documentario non sia incondizionata, hanno paura ma si riflette in un altro modo. 

Gli indigeni hanno ucciso sei persone della Funai prima di questa spedizione, in gran parte a causa della difficoltà di comunicazione legata alla gestualità, del significato dei gesti per un non indigeno verso un indigeno. Nel film gli indigeni hanno tanta paura. Anche il sorriso è una tattica di guerra, è un segnale che può essere pericoloso per noi. Gli indigeni hanno imparato a sorridere per forma da noi, da alcuni pescatori abusivi che arrivavano sorridendo, per poi ammazzarli. L’ultimo cameraman della Funai, prima di questo film, è stato ucciso mentre stava riprendendo, mentre gli erano intorno a lui ballando e sorridendo. C’è crudeltà, ma naturalmente va compreso anche il contesto. 

È un’esperienza che chiede di cambiare i propri criteri di valutazione per cercare di capire l’altro, è molto difficile se si resta con i propri parametri, i valori sono completamente diversi dai nostri. È molto complicato questo esercizio di relativizzazione e di comprensione dell’altro. 

Un viaggio al centro dell’umanità

Hai avuto paura durante la spedizione? Che cosa ti spinge a fare una scelta così coraggiosa? 

La paura nella foresta è un’alleata, una premessa per la sopravvivenza. Allo stesso tempo è un gioco mentale perché in qualsiasi momento può paralizzare. Bisogna trovare l’equilibrio e comprendere fin dove la paura può aiutarti o invece non consentirti di andare avanti. 

Il tuo film ha un grande spessore, ciascuno prende quello che risuona di più. Se dovessi scegliere il messaggio che vuoi far passare, qual è?

Questo è il ruolo della comunicazione, non dell’artista. Mi confronto con una realtà e ne faccio una produzione estetica.

Per me esistenzialmente è stato un punto di inflessione, non sono ancora tornato da questo viaggio.

È troppo, sto cercando di capire, anche tramite il dialogo con le persone. 

Abbiamo tutto, nella società sovrastrutturata manca la curiosità dell’altro rispetto a quello che hai trovato negli indigeni? 

Io penso che siano simili a noi. Non credo si tratti di essere più o meno curiosi, ma di ciò di cui essere curiosi. Per loro incontrarci è stata una esperienza radicale, hanno scoperto moltissime cose, se vai al bar non hai lo stesso tipo di vissuto. L’incontro con gli indigeni è stata anche per noi un’esperienza enorme ricca di curiosità. Sarà difficile per me trovare un altro soggetto così sfidante per il prossimo film. 

Perché l’unione tra gli esseri umani fa tanta paura? 

Ancora una volta questo ha a che fare con l’altro. L’altro fa paura. Tanto più noi non trasformiamo l’altro in una conoscenza intima dentro di noi, tanto più ci spaventa. 

Per la paura dell’altro abbiamo costruito città…

Credo sia l’inverso, per la dipendenza dall’altro accumuliamo bisogni, li stratifichiamo, creiamo il mercato, le reti sociali, sono tutte situazioni che ci fanno connettere. 

La dipendenza è paura. Qual è la differenza tra dipendenza e collaborazione? 

Collaborazione e dipendenza sono molto diverse. La dipendenza da un altro mina l’autonomia, c’è sempre un prezzo da pagare, materiale ed emozionale. 

La comodità ha un costo. 

Per ciò che hai visto, gli indigeni stanno meglio o peggio di noi? 

Dipende dal criterio con cui si guarda, che cosa si intende per meglio o peggio? 

Tutti noi in qualche modo siamo stati originari. La politica della Funai è di ‘non contatto’, però era in atto una guerra storica con un’altra tribù che, per una serie di ragioni, andava in città e tornava nella foresta portando virus dell’influenza e armi. Quella che era inizialmente una guerra ancestrale tra due popoli è diventata una strage, perché si trasmettevano malattie non guaribili in mezzo alla foresta. Questo è uno dei grandi temi della Funai, un impasse da cui uscire: come proteggere gli indigeni e mantenere la distanza? Nel caso di quella spedizione era una questione di vita o di morte, se non fosse arrivata la Funai si sarebbero estinti. Il dilemma era o morti o ‘contaminati dalla civiltà’.  

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Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.

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