Padre Moritz Windegger, fotografato sullo sfondo di San Pietro, giornalista del quotidiano Dolomiten e addetto stampa dei Francescani in Austria, ha concesso un'intervista esclusiva a Quoziente Humano

‘Liberarsi’ per fare un passo avanti tutti insieme

(segue da qui)

Intervista a padre Moritz Windegger, giornalista del quotidiano Dolomiten e addetto stampa dei Francescani in Austria

Era il 7 maggio e le porte della Cappella Sistina stavano per chiudersi alle 16.30 con 133 cardinali all’interno, quando l’ho incontrato uscendo dalla Sala Stampa di Via dell’Ospedale, a Roma, destinata ai giornalisti temporanei accreditati per coprire il conclave. La prima cosa che lui mi ha detto, con gentilezza, è stata: “Per favore, non mi chieda chi sarà il nuovo Papa. Sono già stato fermato diverse volte da giornalisti che mi facevano questa domanda.”

Padre Moritz Windegger, anche lui giornalista, corrispondente per il quotidiano “Dolomiten” di Bolzano e addetto stampa dei Francescani in Austria, non lo sapeva ancora, ma quel rischio non lo correva. L’interesse di Quoziente Humano, infatti, non era trovare qualcuno che “indovinasse” il nome del prossimo Pontefice, ma ottenere uno sguardo particolare sui giorni del conclave e sullo stato attuale della Chiesa Cattolica.

L’intervista, antecedente l’elezione di Leone XIV, offre una visione sincera su diversi temi: le sfide del nuovo Papa, spiritualità, il dialogo con le altre religioni, Chiesa e povertà. Secondo lui, fare il Papa oggi è “quasi un lavoro da Superman”.

Che cosa si aspetta dal nuovo Papa?

Il nuovo Papa, chiunque sarà, dovrà essere sicuramente una figura autorevole, capace di integrare la Chiesa Cattolica – tanti fedeli, tanti pensieri, tanti sentimenti – e anche di relazionarsi con tutto il mondo. Sarà a capo di una Chiesa che riunisce un miliardo e duecento milioni di persone. È una responsabilità grandissima, e lo vediamo anche in questi giorni dalle parole dei cardinali: si cerca un pastore, qualcuno che sappia unire le divisioni, che abbia attenzione per i poveri ma che sia anche pronto al dialogo con la parte del mondo che non crede o che crede meno. Cioè, è quasi un lavoro da Superman. Il nuovo Papa di sicuro non potrà fare tutto da solo, ma può fare una cosa – l’ha fatta Papa Francesco, e anche Benedetto: essere una fonte di ispirazione per tornare a essere una Chiesa che cammina insieme.

Lei è francescano…

Sì, e noi francescani abbiamo un principio, cioè la regola di San Francesco che dice subito alla seconda riga, al primo articolo, che San Francesco e i fratelli francescani devono essere leali, fedeli al Papa e onorarlo. Chiunque uscirà come Papa nei giorni prossimi avrà l’amicizia e le preghiere dei francescani.

È il suo primo conclave?

Il secondo. Ero qui nel 2013, ma non ero ancora francescano, facevo solo il giornalista. Ricordo l’entusiasmo della gente quando è stato eletto il cardinale Bergoglio. Un conclave è sempre un momento particolare, perché ciò che conta accade dietro le mura, com’è giusto che sia. Ma la gente partecipa, commenta, fa previsioni, che a volte possiamo anche cestinare. È un modo per sentirsi parte di ciò che succede. Anche se ci sono quei romani che dicono che a loro interessa il momento in cui esce il Papa, dopo la fumata bianca. Prima che succeda, loro continuano a vivere la loro quotidianità.

In questi giorni, da giornalista, che cosa ha attirato la sua attenzione?

Cerco anche dettagli più piccoli. Noi giornalisti vediamo solo una parte, mentre le informazioni più grandi, quelle concrete, arriveranno dalla Sala Stampa. Questa è una differenza rispetto al 2013: il dicastero per la comunicazione oggi è molto più preparato. Riceviamo tutto via computer, potremmo anche stare a casa. È il mondo digitale. Ma resta importante cercare anche qualche storia.

E lei ha trovato qualche storia particolare?

Ieri sono andata dalla Guardia Svizzera. Il 6 maggio, di solito, c’è il giuramento delle nuove reclute, ma quest’anno non c’è stato perché non c’è ancora un Papa. C’è stata quindi la commemorazione dei caduti del Sacco di Roma del 1527, quando morirono 147 soldati della Guardia Svizzera per difendere il Papa. L’attuale loro comandante, colonnello Christoph Graf, ha detto una cosa importante: “Le atrocità della guerra non sono finite nel 1527. Ci sono tuttora ed è compito di noi, cristiani, vigilare sull’umanità di ogni persona”. Sentire questo dal comandante della Guardia Svizzera (e non c’è quasi nessuno che stia più vicino a un Papa come lui) era quasi come un monito a tutti noi e anche a coloro nella Chiesa che adesso stanno prendono le decisioni.

Temi come la guerra, l’umanità, gli ultimi… li percepiva nel conclave del 2013?

Allora si parlava soprattutto del ritiro di Papa Benedetto: come avrebbe cambiato la Chiesa, come sarebbe stato il ritiro di un Papa regnante. Oggi giornalisti stanno cercando molto di più questi altri argomenti, anche grazie a Papa Francesco, che li ha riportato al centro. Anche se, certo, c’erano già prima di lui.

Secondo lei, questo nuovo approccio alle storie è legato al carisma del Papa precedente?

Più che al carisma, ai contenuti. E anche al suo essere un uomo dei grandi gesti, un classico argentino, appassionato.

Se potesse incontrare il prossimo Papa, che cosa gli direbbe?

È una domanda difficile. Gli direi:  “Santo Padre, continuerò a pregare per lei”. È una cosa che Papa Francesco chiedeva sempre a tutti di fare per lui. Ed è la prima cosa da fare, se uno è in comunione col Vescovo di Roma. Non è soltanto un modo di dire, pregare è un atto concreto, che ci mette in relazione con colui per cui preghiamo ma anche col Signore.

Come vede oggi la spiritualità del popolo cattolico?

La spiritualità cattolica comprende tutto un mondo di forme spirituali: ci sono coloro che camminano da soli, ci sono i grandi movimenti che raccolgono migliaia di persone. L’importante è la persona. Questo non è una novità, però è stato un grande punto di forza di Papa Francesco. Lui diceva sempre: bisogna guardare prima chi si ha davanti e poi magari intraprendere un cammino con lui. Non possiamo predicare il Vangelo attraverso gli schemi, che sono anche importanti per aiutarci ad avere l’orientamento giusto, però poi se mi trovo davanti la persona non posso dire “un attimo, guardo nel libro e trovo la soluzione per te”. Prima bisogna capire chi ci sta davanti: che storia ha, che pensieri, che sentimenti. Poi, come insegna la spiritualità ignaziana, ci si mette in cammino insieme. E camminare con l’altro non vuol dire spiegargli cosa deve fare — anche se a volte bisogna farlo — ma innanzitutto chiedergli come vive, cosa pensa, dove vuole arrivare. Il principio della personalità è un caposaldo della fede cattolica da almeno due secoli, ma ne parlavamo poco. Papa Francesco lo ha riportato al centro.

E questo vale anche nel dialogo con le altre religioni...

Il dialogo con coloro che credono ad altro o che non credono affatto non vuol dire diminuire la propria spiritualità. Vuol dire ascoltare, perché si ha interesse per l’altro.  Noi cristiani siamo chiamati ad annunciare il regno di Dio, che è il regno di Cristo, ma non deve essere una lotta culturale. Però è testimonianza, e purtroppo in molte parti del mondo la testimonianza della fede in Cristo porta ancora al martirio.

Per questo il dialogo è ancora più importante.

È importante dialogare e anche raccontare di quella parte del mondo che vivi in difficoltà, che è grandissima. Ci sono quelli che non hanno da mangiare, ci sono quelli che vengono oppressi da forze che non possono considerarsi cristiane anche se lo dicono di essere. Cristo non porta oppressione, Cristo porta libertà e gioia.

Avendo scelto la via di San Francesco e il voto di povertà, come vedi il rapporto tra povertà e Chiesa?

San Francesco ha scelto la povertà per sé e per i suoi confraterni. Lui non intendeva rendere povera la Chiesa. Naturalmente, la sua scelta ha portato ad un dibattito acceso al suo interno. Tutti conosciamo la storia: ci sono state divisioni su come dovesse essere la Chiesa. Io dico però: anche se vivere come San Francesco è un ideale, dobbiamo essere realistici perché è praticamente impossibile raggiungere il suo livello. L’anno prossimo si commemorano gli 800 anni della sua morte; da allora, non abbiamo avuto nessun altro come lui. Possiamo avere una meta, anche con la consapevolezza che difficilmente riusciremo a raggiungerla pienamente. Come il Vangelo: il Signore o la Madonna sono degli ideali irraggiungibili, ma non per questo l’ideale vale di meno. Così è con la povertà, che non è un valore di per sé. Non ha valore vedere qualcuno che non ha da mangiare. Il valore sta nel liberarsi per focalizzarsi sul Signore. Se ognuno – secondo le proprie possibilità – riuscisse a farlo, faremmo tutti dei passi avanti.

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