Un’architettura responsabile “può cambiare il mondo”

Persona, natura ed edificio. Parte dalla relazione tra questi tre elementi l’architettura sostenibile di Marco Visconti, alla guida di MVarchitects e ‘lecturer’ presso Università sia Italiane che straniere. I suoi lavori nascono dall’osservazione dell’ambiente e dalla realizzazione di opere rispettose del contesto e dell’individuo. “Siamo natura – dice -, viviamo nella natura. Una buona architettura è talmente legata al suo essere in un certo luogo che ne deve diventare parte”. Nella sua carriera ha progettato e costruito, comunicando attraverso i segni delle strutture da lui realizzate. 

Che cosa significa progettare e realizzare un’architettura di senso?

Ci sono diversi approcci per essere parte di un luogo: ci si può inserire in modo delicato, da non farsi quasi vedere, o viceversa caratterizzarsi e identificarsi. Il primo caso l’ho applicato circa 25 anni fa allo stabilimento di Melfi della Fiat, un luogo per 6000 persone. Un colosso realizzato in mezzo ai campi. L’industria agricola lasciava il posto alla fabbrica, la prima preoccupazione è stata questa: come limitare l’impatto, in modo che l’edificio, immerso nella natura, quasi sussurrasse un linguaggio che si è deciso di definire in micro-scala, per essere poi rappresentato in grande scala. Ci sono più di 20 km di prospetti. Diverso è il caso di altri luoghi: con il ristorante Ferrari a Maranello si è voluto far ‘urlare’ l’edificio – scultura, un’opera molto connotata, che prende vita dall’integrazione tra energia, materiali, funzione e ventilazione naturale. Un piccolo monumento nel quale ognuno si ritrova perché sa che quello spazio è direttamente collegato al proprio essere. Per Zucchetti a Lodi il proposito è stato realizzare una torre che non vuole nascondersi, che è diventata un elemento parzialmente pubblico. L’intenzione era rappresentare l’oggetto per regalare senso di appartenenza a chi lo frequentasse. Tutto questo parte da un ragionamento diretto alla qualificazione dal punto di vista umano che si intende dare

Come si costruisce la relazione tra uomo, edificio e natura inserendola in un contesto urbanistico e architettonico coerente? 

Ritornando all’esempio dello stabilimento di Melfi, prima di costruirlo c’erano solo colline con nulla attorno, un ambiente del tutto naturale, come noi siamo abituati a definire. Siamo partiti con il porre grande attenzione all’impatto in altezza dell’edificio, realizzando padiglioni industriali sviluppati orizzontalmente, quasi a farli scomparire. Il concetto di base è stato supportato da alcune azioni, per esempio  si è voluto non portare via il terreno di fondazione, lo abbiamo spostato per fare posto alla costruzione, poi messo sul fronte, in modo tale da poter accordare la costruzione su piani di terra. 
Da un punto di vista tecnico è rimasto un edificio assolutamente all’avanguardia. Anche dopo il covid FCA è ripartita da là, da una fabbrica considerata sostenibile. Si è deciso di progettare lo stabilimento in modo semplice e rigoroso. Essere sostenibili spesso può anche significare lavorare sull’ovvio. Ci si è proposti costruire uno stabilimento estremamente flessibile, docile nei cambiamenti, sembra fatto di pongo. Abbiamo ripreso i colori della natura, utilizzato il tufo, lo stesso che veniva usato nelle bellissime masserie pugliesi, per fare la zoccolatura. Con l’intento quasi di dematerializzare – perché comunque un edificio del genere interrompe l’orizzonte – si è scelto di disegnare delle fasce orizzontali. In una di esse si è definito di riprodurre l’orizzonte, il verde della pianura, per inserire l’oggetto di architettura nell’ambiente, un’altra fascia è brillante, per specchiare il cielo, in questa riflessione è la natura stessa a parlare. Si è inteso far dialogare l’architettura attraverso i propri segni. Vicino a Melfi a 8/10 km c’è la città di Venosa dove sorge un anfiteatro romano. Allo stesso modo abbiamo creato all’interno dello stabilimento una sorta di anfiteatro, in cui ci sono uffici, ristoranti, spogliatoi. Come dire: se un tempo la cultura governava a Venosa, oggi quella stessa con il lavoro vince in una zona vicina, è importante stabilire un rapporto. Questa relazione è chiara a una vista dall’alto, ma quasi scompare quando ci si avvicina alla fabbrica. 

Anfiteatro dello stabilimento di FCA a Melfi

Quanto l’architettura può valorizzare il concetto di umanità?

Se l’architettura parte dalle componenti fondamentali di quella che noi intendiamo per umanità riesce sempre. Se andasse contro questo concetto sarebbe un errore. Spesso mi chiedo quanto sia giusto fare un passo indietro per far vincere la funzione e andare oltre la forma. Spesso succede, a Melfi data la grandissima dimensione dell’intervento, è accaduto.

In che modo l’architettura contribuisce a creare comunità?

In questo caso si passa al tessuto urbano. Penso che fare l’architetto significhi lavorare per il cliente, per se stessi, ma anche per tutti quelli che godono dell’opera realizzata, magari anche solo dall’esterno. Comunità significa aprire sempre di più gli edifici al pubblico o anche a un vicinato. Questa è la nostra sfida. In città come Torino e Milano le aree industriali dismesse possono essere riconvertite in nuovi spazi privati e pubblici dove il concetto di comunità disegna l’urbanistica, la funzione, lo stare insieme all’interno dei limiti che abbiamo con la pandemia. 

Come si può fare rete per arrivare alla riconversione di alcuni spazi urbani? 

Il potere che disegna è senz’altro pubblico. Lo Stato deve muovere azioni e capitali per realizzare tutto questo. Oggi abbiamo una possibilità con il Recovery Fund. Bisogna muoversi attraverso concorsi in architettura, ma ancor prima occorrono le idee. Bisogna fare i passi giusti quando opportuno: aprire il tessuto urbano, connotare un mix di funzioni in modo tale che le periferie recuperino un’identità dell’abitare. In questo modo l’architettura può generare spazi innovativi. 

Qual è secondo lei la chiave per impattare dal punto di vista urbano in modo positivo sulla società? 

L’impatto positivo nel sociale sta nel fare in modo che l’architettura ne interpreti i valori. Succede spesso che i valori siano esclusivamente commerciali, ma anche questi si possono rappresentare in modo sostenibile. Nella torre Zucchetti abbiamo fatto un ragionamento simile. I valori umani che abbiamo messo dentro quella costruzione sono evidenti: posto di lavoro calibrato, presenza della luce, sistemi di protezione, impianti fotovoltaici nascosti ma funzionali, ventilazione naturale, materiali usati riciclati. Questi sono valori. La torre, già esistente e di cemento armato, aveva pianta quadrata: abbiamo tagliato gli spigoli perché volevamo raggiungere una forma a semicerchio. Abbiamo avuto fortuna perché le colonne negli angoli erano a vetrate, e quelle piramidi di cemento sono servite a generare un altro edificio. 

Torre Zucchetti a Lodi

Sostenibilità come driver nel suo lavoro. Da dove arriva questa intuizione? 

I miei studi hanno avuto una svolta quando ricevetti una borsa di studio per un master negli Stati Uniti alla UCLA di Los Angeles. Ero curioso di andare in America per due ragioni: conoscevo gli edifici leggeri che negli anni 50 venivano costruiti in California, palazzi realizzati con pezzi di facciata per capannoni. Mi interessava molto la prefabbricazione portata a quei livelli estremi, già in essa esiste un alto valore di sostenibilità. Allora lavoravo per Domus, scrivevo articoli proprio su queste case. Il secondo motivo per il quale mi interessava trasferirmi erano i lavori sul risparmio energetico e sui tetti che raccoglievano acqua, un elemento che a sua volta può convogliare energia o essere un buon isolante. Ho iniziato ad appassionarmi all’architettura passiva, che si apre verso l’ambiente e allo stesso modo si chiude. Tornando a Torino ebbi occasione di progettare la fabbrica di Melfi. Sono stato allievo di Renzo Piano. Ho avvicinato Norman Foster con il quale ho collaborato alla realizzazione dell’Università di Scienze Politiche e Giurisprudenza a Torino. L’avere imparato dai grandi ha influenzato il mio modo di lavorare. 

Come cambia l’architettura a seguito della pandemia?

Partiamo dalla casa, che non può più essere piccola. L’abitazione deve avere un rapporto con la natura diretto, i balconi dovrebbero essere ampliati. Bisogna stare in un luogo in cui ci si sente persona e non numero. Da un punto di vista urbano, sempre riferendoci alla residenza, bisognerebbe lavorare su tutto quello che non è centro: la periferia può essere qualificata, bisogna portare il verde e i servizi nelle zone dismesse. L’intenzione è limitare la densità di alcuni edifici. Se consideriamo alcuni centri storici, possono essere abitati in modo stupendo. Possiamo generare il sogno delle persone. 

Come devono cambiare i luoghi di lavoro?

Una casa ha i suoi spazi peculiari, anche gli uffici dovrebbero averli. Gli open space dovrebbero essere meno frequentati e bisognerebbe considerare stanze diverse per le riunioni. La natura deve essere sempre più integrata. Bisogna riprogettare gli spazi in ottica di salubrità dell’aria, dal punto di vista acustico e delle distanze. Se consideriamo queste azioni imposte dalla pandemia, conveniamo che sono tutte positive. Lavorare da casa è utile, l’incontro in ufficio lo è altrettanto. Lato industria consideriamo uno spazio meno popolato, ci sono più macchine. Un problema potrebbe sorgere nei cantieri edili, ma il futuro esiste anche là, le macchine ci aiutano. 

Lavora nell’ambito dell’architettura per terziaria, industria, formazione e cultura. Che cosa significa mettere la persona al centro dei suoi lavori?

Si parte dalla persona e dalla popolazione. Il ristorante Ferrari è il più grande d’Italia. È una struttura che ha ospitato i test di tutti i dipendenti dall’inizio della pandemia, e lo ha fatto bene. A oggi lo usano per le vaccinazioni. Èun edificio ventilato, alto, dove lo spazio vuoto genera un’architettura che viene usata. I cambiamenti sono imprevedibili, il miglior modo per accompagnarli è la flessibilità. Anche con l’architettura bisogna pensare concettualmente a edifici generosi con spazi flessibili. Se lo si fa, non si sbaglia. 

Si occupa di architettura bioclimatica. Come si applicano soluzioni integrate di strategia estiva o invernale  a edifici che nelle nostre città sono stati costruiti in anni passati senza un pensiero di sostenibilità alle spalle? 

La grande quantità di edifici dove la cultura della progettazione è assente ha generato posizioni urbane dove si spreca energia e si vive male. L’edilizia povera può essere riqualificata, il 110% può essere usato e permette di cambiare il volto alle città. 

Pensiero tecnico e creativo per inserirsi in modo armonioso con la natura. Quali sono le grandi sfide che l’architettura deve affrontare nei prossimi anni? E qual è lo scatto che l’Italia dovrebbe fare in questo ambito?

Bisogna riqualificare i borghi e le aree storiche, sia urbane che di periferia. Interventi  devono essere fatti anche nel centro delle città, dove la nuova architettura può far valere il proprio linguaggio. L’architettura ha una grande responsabilità perché realizza opere che restano. La bellezza fa cultura. Abbiamo bisogno di simboli. Le città si possono riqualificare, le identità devono dialogare fra loro ed esprimersi. L’architettura cambia il mondo attraverso le persone e la loro vita. 

Se le dico ‘la bellezza salverà il mondo’, che cosa risponde? 

Ne sono sicuro. Avverrà impiegando sapere, creatività e….  fattore umano. 

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Giornalista, consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo individuale e dei gruppi attraverso strumenti a mediazione espressiva. 20 anni di esperienza in comunicazione aziendale.

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