Paolo Iacci

Coltiviamo bellezza e competenza per tornare ad amare il lavoro

Il lavoro è una via per la felicità o una maledizione a cui è impossibile sottrarsi? Da questa domanda nasce il dialogo tra Paolo Iacci, Consulente di direzione e Docente di Gestione delle risorse umane all’Università Statale di Milano, e il filosofo, accademico e psicoanalista Umberto Galimberti. Un dialogo su un tema che oggi più che mai tocca ciascuno di noi, trascritto fedelmente nel volume “Dialogo sul lavoro e la felicità” (Egea Editore).

“Con questo libro – spiega Iacci – abbiamo provato a investigare il rapporto tra il lavoro e la felicità. Non abbiamo detto alcuna verità inconfutabile, ma semplicemente offerto degli stimoli affinché la cultura e un lavoro non alienato diventino una condizione personale diffusa e smettano di essere considerati solo un privilegio. Questo perché la felicità non ci viene dall’ultima generazione di cellulari o dall’ultima creazione del sarto alla moda, ma da un sistema più sviluppato di relazioni che il lavoro come servizio e non solo come produzione potrebbe cominciare a garantire”.

Cosa vi ha spinto a ragionare sul tema?

Ci sono diversi spunti che ci hanno portato fin qui. Il primo è legato alla pandemia, che ha evidenziato un diffuso malessere sociale: una persona su cinque durante la pandemia è andata dallo psicologo per depressione, una su quattro ha fatto ricorso a psicofarmaci, dato che si trasforma in una su tre tra i cassaintegrati.

C’è poi un altro indice che la dice lunga: secondo una classifica di poche settimane fa, l’Italia è il 31mo Paese in termini di felicità percepita. Una posizione intermedia dunque: siamo mediamente felici, ma solo il 5 per cento dei lavoratori italiani si dice soddisfatto del proprio posto di lavoro. Un dato sconfortante visto che il posto di lavoro è il primo momento di socialità adulta: non si può prescindere da esso, paradossalmente anche se non si lavora.

Ancora, durante la pandemia abbiamo superato i 2 milioni di NET, cioè quelle persone che non studiano e non lavorano, e l’Istat ci dice che ci sono più di 100mila hikikomori, adolescenti e giovani adulti che hanno deciso di isolarsi volontariamente dalla vita sociale.

In cerca di un senso

Sono tutti dati che identificano un malessere complessivo diffuso e una crescente richiesta di felicità che irrompe nei luoghi di lavoro: ognuno di noi ha una soglia di tolleranza di infelicità e questa soglia con la pandemia si è abbassata.

Siamo meno disposti ad avere un lavoro che ci rende infelici.

Poi si tratta di capire perché questo accade: ciascuno ha la sua storia certo, ma è anche vero che ci sono alcune macrocategorie di motivazioni.

Di recente AIDP (Associazione Italiana Direttori del Personale) ha condotto una ricerca sul fenomeno della great resignation, le dimissioni di massa, da cui emergono alcune motivazioni “classiche” all’abbandono del posto di lavoro: difficoltà nelle relazioni con il proprio capo, stipendio non sufficiente e poche prospettive di crescita.

C’è però anche un dato nuovo: il 25% degli intervistati se ne va per mancanza di senso, ovvero non c’è allineamento tra i valori che l’azienda propone e i comportamenti che attua e i valori personali del lavoratore. Questo genera infelicità e motivo di non sopportazione, che può portare alle dimissioni anche senza la presenza di alternative immediate.

Da qui il fenomeno della great resignation…

Esatto, anche se devo dire che si tratta di un fenomeno che ha numeri alti a livello internazionale, sul mercato americano, tedesco e inglese soprattutto. In Italia si sta affievolendo, ma rimane il fatto che permangono i motivi di insoddisfazione: che poi uno arrivi a dare le dimissioni senza un’alternativa o che non le dia per paura di non avere alternative, il malessere c’è e aumentano le malattie correlate.

Che cos’è allora la felicità? E cos’è in particolare nel mondo del lavoro?

Per gli antichi greci il primo passo verso la felicità consisteva nel conoscere la propria natura per poterla realizzare. Dobbiamo quindi porci la domanda se oggi siamo ancora attenti alla nostra interiorità, ai nostri sentimenti, a ciò che siamo e davvero vogliamo. O siamo distratti da altro che non ci appartiene, dal rumore e dalla fascinazione del mondo? Il senso della tua vita è in ciò che sei, in quello che hai fatto e stai facendo, nella tua storia, nel passato e nel tuo futuro, nei tuoi progetti. Bisogna prendere consapevolezza di sé.

Se quanto hai fatto finora non ti soddisfa appieno forse è anche perché, come diceva Eraclito, «non hai indagato profondamente te stesso».

Noi siamo i primi ostacoli della nostra infelicità. È un lavoro lento, non sempre facile, ma che dobbiamo compiere per giungere alla nostra realizzazione.

La società regolata dal mercato e quindi basata su delle logiche di mera prestazione e di efficienza produttiva volta solo al profitto non aiuta in questa ricerca e anzi la osteggia e crede che sia solo tempo perso. Questa è la ragione dell’infelicità collettiva, dell’insoddisfazione che si legge su molti visi di pendolari che a fine giornata prendono i mezzi pubblici per tornare a casa dopo una giornata di lavoro. Il lavoro quotidiano può essere fonte di felicità solo se comporta la possibilità dell’espressione di sé.

Le aziende cos’hanno capito?

Intanto che c’è una richiesta di supplenza da parte loro verso quello che non funziona nel pubblico. Lo abbiamo visto durante la pandemia quando hanno risposto molto velocemente sul tema salute, garantendo i lavoratori in presenza con tamponi, mascherine e tutte le misure necessarie. Hanno capito anche che con il lavoro agile, lo smart working, è cambiato il paradigma: si è passati da un paradigma di comando/controllo a uno di fissazione obiettivi/monitoraggio dei risultati.

Un salto enorme che richiede una trasformazione organizzativa, uno sviluppo della digitalizzazione e una nuova formazione dei capi. Un cambiamento che richiede tempo. Le aziende si stanno muovendo in questo senso: basti guardare al fatto che la maggioranza di esse ha sposato il lavoro agile o forme ibride, andando incontro alla richiesta di maggiore autonomia dei lavoratori.

Sembra che le nuove generazioni in particolare siano più attente alla qualità della vita. Che cosa cercano in un lavoro?

I più giovani stanno chiedendo lo smart working come condizione imprescindibile per accettare un lavoro, però nello stesso tempo hanno capito l’importanza della presenza se vogliono imparare e se vogliono entrare in azienda. Allora dicono smart working sì ma non sempre, con criterio. Molte aziende ci stanno ragionando e stanno prendendo le misure rispetto a richieste diversificate.

Anche noi come Eca Italia (di cui Iacci è Presidente, ndr) abbiamo notato che le persone più giovani sono quelle che più chiedono di venire in ufficio, pur volendo la possibilità di fare smart working: le due cose non sono da leggersi in contrapposizione.

A livello di società cosa deve cambiare?

È entrato in crisi un modello valoriale, dove avere successo voleva dire avere soldi e status. Oggi quel modello non regge più: il successo viene misurato anche su altri elementi, che sono le relazioni e la disponibilità di tempo, elementi che non possono essere riportati solo al denaro. Se vogliamo la felicità per tutti, però, dovrebbero essere ridotte le disuguaglianze sociali, così come bisognerebbe investire pesantemente sulla scuola, sulla preparazione di base degli insegnanti, a partire dalla scuola primaria. In Italia abbiamo il 27% di analfabeti funzionali: siamo penultimi nella classifica europea, seguiti solo dalla Grecia.

Se la letteratura non viene “frequentata” e i libri non vengono letti, se la scuola disamora, allora il sentimento non si forma.

E se la cultura non interviene, i ragazzi rimangono a livello d’impulso o al massimo di emozione. I libri non servono per sapere ma per pensare. Da qui la necessità di educare al sentimento, a partire dalle favole per bambini dove si impara che cosa è bene e che cosa è male, e poi, crescendo, con la scuola dove dalla letteratura si apprende tutta la gamma dei sentimenti, i loro nomi e i loro possibili percorsi. E solo grazie a questo corredo culturale si acquisisce quella sensibilità psichica capace di distinguere il bene dal male, l’amore dall’odio, la partecipazione dall’indifferenza.

Qual è la chiave per un futuro migliore?

Credo che sia coltivare bellezza e competenza e farne la cifra con cui l’Italia si presenti nel mondo. Ma per farlo in modo convincente occorrerebbe impegnarsi in uno sforzo generazionale di valorizzazione senza compromessi del merito, della formazione e, prima ancora, dell’educazione sentimentale.

Sul tema leggi anche ‘Risorse umane: etica e competenze. È il tempo di supportare, non quello di vietare’

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