Matilde Marandola, la presidente Nazionale dell'Associazione Italiana Direzione Personale ritratta sorridente
Matilde Marandola, Presidente Nazionale dell'Associazione Italiana Direzione Personale

Risorse umane: etica e competenze. È il tempo di supportare, non quello di vietare

Già Presidente di AIDP Campania e Referente dell’Area Responsabilità Sociale, dallo scorso giugno è la nuova Presidente Nazionale dell’Associazione Italiana Direzione Personale. Intervista a Matilde Marandola.

Matilde Marandola, neo Presidente Nazionale dell’Associazione Italiana Direzione personale (AIDP), riassume in sé, con quello delle risorse umane, alcuni dei temi dominanti il mondo del lavoro. Due su tutti: il valore della diversity, con il suo essere donna in un ruolo di rilievo sia all’interno dell’associazione, sia in azienda; un nuovo modo di lavorare, per lei tra Napoli e il Nord del Paese, testimonianza diretta della nuova interpretazione di ‘luogo’ di lavoro.

Classe 1964, laureata in Giurisprudenza e Professional Certified Coach, la neo Presidente, si occupa da oltre 30 anni di formazione, selezione, coaching ed organizzazione aziendale. Ha iniziato la sua carriera nel gruppo IRI e oggi è Fractional People Manager in Camomilla Italia.

Con lei, parliamo di risorse umane in un momento difficile per l’occupazione: tra la fine del blocco dei licenziamenti e i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro accelerati dallo scenario pandemico.A partire da una parola che la neo presidente reputa chiave: umanità.

Cos’è l’umanità in una azienda?

Il concetto di umanità oggi è l’unico veramente valido per la sopravvivenza delle organizzazioni. Essere focalizzati unicamente sul business o su elementi economico finanziari o profondamente tecnici o tecnologici, non basta. Se le organizzazioni e le persone cominciano a interrogarsi sul purpose, sullo scopo del percorso, della propria missione, le cose possono veramente cambiare.

Credo che la pandemia abbia fatto esplodere questa urgenza: non basta più andare a lavorare, fare impresa, ci si deve interrogare sull’impatto che abbiamo in termini sociali, ambientali, economici, solidali, di comunicazione, di valore aggiunto da tutti i punti di vista.

La visuale oggi è più larga, non è solo una questione di processi interni, ma anche esterni all’azienda: essere di supporto allo sviluppo dei territori, avere contatti veri e costruttivi con gli stakeholder significa fare squadra per uno scopo realmente differente. In questo modo le organizzazioni e le persone possono ritrovare una rinnovata motivazione ed energia: se so che il mio lavoro ha un senso – ed è un senso di solidarietà, di supporto, di servizio, è dare qualcosa che è importante per qualcuno -, le situazioni si modificano.

In questa ricerca di senso, qual è l’anello debole?

Gli HR sono abbastanza forti, perché chi sceglie di occuparsi di persone decide di essere una funzione di servizio per le altre e per le persone che lavorano nell’organizzazione. Certo, c’è sempre del lavoro da fare in termini di miglioramento, ma l’humus favorevole.

Anche nella maggior parte degli imprenditori italiani esiste una sensibilità alla generosità, all’intuizione. Per molti, che operano in family company, le aziende sono quasi dei figli. Ho visto spesso situazioni frutto del coraggio, della creatività dell’imprenditore e, quindi, strettamente connesse a obiettivi di senso.

Sostenere i virtuosi

L’anello debole, secondo me, sono la politica e le leggi. Quante dialogano con questa visione?

Quanti finanziamenti stanziamo o stanzieremo in Italia per fare in modo che le aziende virtuose, le persone virtuose, i sistemi virtuosi siano veramente sostenuti?

Oggi viviamo un momento difficile da un punto di vista economico, occupazionale, abbiamo bisogno di supporto più che di divieti. I progetti sono fantastici ma hanno bisogno di diventare concreti e perché accada devono essere tra le priorità normative di questo Paese.

Come AIDP cosa fate in questa direzione?

Dal nostro congresso nazionale sono emersi spunti interessanti. Con più di tremila associati che lavorano ogni giorno sul campo, per e con le persone, abbiamo le idee chiare su quello che servirebbe alle aziende per sostenere l’occupazione e lo sviluppo. Serve una interlocuzione più costante con le Istituzioni e la realizzeremo a breve.

Credo che in Italia ci sia anche la necessità di introdurre delle prassi di competenze; per ogni processo legislativo si devono consultare gli esperti, perché il processo di produzione della legge non è solo politico è anche tecnico. Se io facessi una legge sulla fisica nucleare non verrebbe molto bene… Penso che ‘competenze’ sia la parola chiave di questo momento.

Fine del blocco dei licenziamenti, esigenza di crearsi nuove competenze , certezza per molti non potrà accadere…

Ci sono tanti interessi che possono sembrare contrapposti, per molti anni si è anche disegnato un quadro di contrapposizione nelle normali interlocuzioni, tra azienda e sindacato ad esempio.

Auspichiamo che venga superato, perché la ripresa dell’azienda, delle organizzazioni del lavoro, il benessere delle persone, dovrebbero essere un interesse collettivo, non più solo quello dell’azienda, della persona, o del territorio.

Potremmo trovare soluzioni di benessere aziendale, economico, solidale e sostenibile, sociale e individuale: esistono esperienze in tal senso.

Per quanto riguarda il blocco dei licenziamenti, non sono per le normative che vietano. Non lasciare la libertà all’azienda non funziona molto. Finora era giusto così, adesso dobbiamo dare supporto: alle aziende e alle persone.

C’è un tema legato all’accesso dei giovani al mondo del lavoro.

Dialoghiamo con la scuola e l’Università, mondi ancora separati per cui possiamo trovare momenti di contatto e ascolto reciproco. Oltre a quella della Responsabilità sociale e sostenibilità a cui tengo moltissimo, avremo anche un’area scuola e università a livello nazionale dentro AIDP.

Il suo scopo sarà costruire interlocuzioni fattive e concrete, tavoli di lavoro, sperimentazioni di dialogo concreto con le università per un’influenza reciproca: delle aziende per rendere i percorsi di laurea vicini alle esigenze reali; delle Università, che con la competenza, torniamo ancora lì, possono garantire un arricchimento vicendevole.

Un esempio: io credo molto nelle competenze trasversali, nell’etica del lavoro e nell’importanza di comportamenti organizzativi rispettosi delle diversità.

Oggi, quanto le competenze trasversali, l’ascolto attivo, l’empatia, la servant leadership, tematiche dell’organizzazione, vengono insegnate a scuola?

Mi sembra che in Svezia abbiano istituito l’empatia come materia scolastica…

Auspico un mondo che attraverso le competenze trasversali si possa riunire; in cui aziende, università e scuole, ognuna con il proprio scopo e ruolo, possano contribuire a formare persone con un’etica, una responsabilità e competenze forti sul mercato del lavoro.
In corso d’opera, è più facile acquisire competenze tecniche, a volte, però, quelle trasversali sono più importanti.

Lei vede nelle aziende la consapevolezza della necessità di fare crescere le proprie persone in questa direzione?

Abbastanza. A volte perché si è capito che così si fa più business, quindi, per un motivo utilitaristico, a volte per uno scopo più alto. Dal mio osservatorio, però, a oggi sono poche le aziende nelle quali non si crede nella formazione, non fosse altro perché la crescita delle persone è necessariamente quella delle aziende.

Dipende da molti fattori, ma piano piano stiamo andando verso una condivisione culturale di attenzione alla crescita delle persone. I fondi interprofessionali hanno aiutato, perché agevolando lo sforzo economico e finanziario delle aziende, se ben gestiti, le hanno abituate a fare formazione e a farla frequentemente.

Junior e senior quali sono le parole chiave della relazione con questi due target della popolazione aziendale?

Questo è un tema strategico, credo che un buon approccio anche culturale, al di là dello strumento utilizzato, sia quello del reverse mentoring.

Per la prima volta siamo in una situazione nella quale l’età non significa necessariamente maggiori competenze

In una situazione tradizionale meno avanzata tecnologicamente, più si lavorava più si riuscivano a sviluppare competenze ed era corretto che le persone meno giovani insegnassero a quelle più giovani.
Oggi, le competenze digitali sono a portata di mano delle nuove generazioni e questo significa una grande opportunità di scambio. Io posso insegnare come si fa la formazione manageriale a una persona più giovane di me, che mi può a sua volta insegnare un approccio al digitale che io non ho.

Chi vede più portato a questo scambio? I giovani o i meno giovani?

È una analisi complessa. Bisognerebbe davvero mettersi nei panni degli altri e non avere pregiudizi. Credo che la voglia di cambiare sia connaturata in chi ha una età giovane: io sono del ‘64, nei rampanti anni ’80 eravamo certi che avremmo cambiato le cose, magari non è stato così, ma la nostra gioventù ci portava alla giusta illusione di poter lasciare il segno.

Oggi i giovani hanno molto di meno questo tipo di visione, sono più disillusi, hanno moltissimi problemi e i dati occupazionali non sono incoraggianti. Detto questo, credo che le organizzazioni abbiano il compito e il dovere di creare progetti capaci di fare dialogare, scambiare e apprendere competenze e questo deve essere fatto senza pregiudizio. In modo davvero inclusivo.

Inclusione e lavoro femminile. Qual è lo stato dell’arte e cosa avete in programma di fare?

Abbiamo un’area Inclusion, sempre a livello nazionale, molto attenta e con un monitoraggio a tutto tondo. Rispetto alle donne, in particolare, c’è ancora molto da fare, lo vediamo rispetto ai ruoli manageriali o dirigenziali, troppo pochi. Continuano a esistere cliché, pregiudizi, stereotipi molto forti che vanno combattuti, dalle donne per prime.

Credo che la parola chiave competenze, spesso citata in questa chiacchierata, valga anche in questo caso: è indipendente dal genere, dall’orientamento sessuale, dalla razza, dalla religione, da tutto. Un approccio pragmatico, che dovrebbe guidare tante organizzazioni e inizia a diffondersi, perché i numeri crescono.

Questo, indipendentemente dalle quote rosa nei consigli di amministrazione, su cui non sono molto d’accordo. Mi sembra una imposizione, dovrei sedere nel consiglio di amministrazione non perché sono donna, ma perché sono capace. C’è ancora un po’ da fare, ma anche qui vediamo un trend di crescita. Dobbiamo continuare a parlarne.

Come continuare a parlarne?

Tra gli altri, abbiamo un protocollo di intesa con ASVIS e stiamo organizzando un road show in giro per l’Italia, oggi in modalità virtuale, presto sarà fisico: facciamo tappa nelle regioni italiane con storie di sostenibilità e responsabilità sociale raccontate dai protagonisti e ci focalizziamo in particolare sull’agenda 2030.

Siamo stati in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Campania e Liguria. Testimoniamo che quello che ho detto si può fare nelle aziende, ma anche nella Pubblica Amministrazione e nelle organizzazioni del terzo settore, che attivando reti sono riuscite a realizzare cose straordinarie.

Un Paese che cambia

A proposito di ‘remoto’, parliamo di smart working, cosa è oggi e cosa può diventare?

Bisogna innanzitutto capirsi sull’etimologia dell’espressione, siamo certi che sia smart?

Oggi utilizziamo questi termini per quello che, di fatto, è un lavoro a distanza, dove la persona decide se lavorare da casa, dal parco o sotto la scuola dei bimbi che è andata a prendere. Abbiamo fatto una survey trai nostri associati e i dati sono confortanti, perché un’ottima percentuale ha intenzione di non ritornare nella situazione precedente alla pandemia.

Credo che andremo verso un lavoro cosiddetto ibrido, forme blended, in cui la chiave di successo sarà l’ascolto. Non consiglio di standardizzare, è importante ascoltare le esigenze delle persone e che le persone ascoltino l’esigenza organizzativa o del business. In questo ascolto reciproco potremmo trovarci in situazioni di totale lavoro a distanza, o completamente in presenza e questo cambierà anche la geografia economica del nostro Paese: non dimentichiamo che tantissime persone che si sono trasferite per lavorare potrebbero tornare al sud, il che significa lavorare per aziende con sede al nord ma spendere in altre Regioni. Io sono una napoletana che lavora spesso al nord e sono sensibile a questi aspetti. Questo fenomeno non va sottovalutato.

Quanto tempo ci vorrà per trovare un nuovo equilibrio?

Credo che le aziende, come le persone, non debbano mai trovare un equilibrio, perché nel momento in cui lo trovano si fermano. Certo, dobbiamo conquistare tutti una maggiore serenità: di sicurezza, salute, economica, normativa, politica e aziendale. Credo che le aziende si siano già messe in discussione e continueranno a farlo. Forse dopo quello che abbiamo vissuto ci spaventano meno i cambiamenti, anche quelli organizzativi.

Non possiamo, però, pensare di cambiare senza avere dei dati, dei trend. Le situazioni vanno analizzate con attenzione, le persone vanno ascoltate, lo ridico ma per me è importantissimo, e poi vanno prese le decisioni. Decisioni che possono cambiare, perché nel frattempo muta il contesto di riferimento.

Se qualcosa ci resta da questo momento così tragico sono le priorità di senso e anche di solidarietà vera, di umanità, che non dovremmo dimenticare più. Su questo possiamo ricostruire economicamente, aziendalmente il Paese, perché abbiamo una intuizione, una ricerca della qualità, delle radici culturali che ci rendono leader indiscussi in moltissimi settori merceologici.

Oggi domina lo sguardo a brevissimo, la ricerca di senso di cui parla si può tradurre in una visione di lungo termine?

Sì e anche in ricerca della cultura della solidarietà nel senso più profondo del termine. Non quella di facciata che ci fa sembrare più buoni con un po’ di beneficienza, così lo raccontiamo e ci facciamo anche un po’ di pubblicità. Parlo di qualcosa di più profondo che renda contenti di esserci comportati in un certo modo.

Oggi si parla anche tanto di felicità in azienda, è un tema molto affascinante: la ricerca dello stare bene.
Credo che possiamo – e dobbiamo – trovare una situazione in cui l’azienda, il business, la responsabilità sociale, la sostenibilità vengano soddisfatti sempre insieme alle esigenze della persona.

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Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva.

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