Giada_Lonati, direttrice socio-sanitaria VIDAS
Giada Lonati

Quello che resta è l’amore

“Faccio il lavoro più bello del mondo. Sono un medico palliativista”. Parole che a prima vista possono sembrare una contraddizione: come può essere bello occuparsi delle persone che percorrono l’ultimo tratto di vita? 

A pronunciarle è Giada Lonati, direttrice socio-sanitaria di VIDAS, che da oltre 25 anni accompagna le persone in un momento estremo come quello del fine vita, con il compito di lenire l’inevitabile sofferenza che segna questo tempo. 

Il suo mestiere le ha insegnato molto, in primis il valore della cura, per chi la offre e per chi la riceve, e la bellezza della vita. Con parole garbate e profonde, Giada racconta la sua esperienza in un libro che è una testimonianza preziosa: “Prendersi cura. Per il bene di tutti: nostro e degli altri”, uscito in occasione dei 40 anni di VIDAS.


Che cosa significa prendersi cura?

La parola cura ha due radici: quella latina cor urat, letteralmente “scaldare il cuore”, e quella che rimanda al sanscrito kau, che potremmo tradurre con “osservare”, “guardare”. Mi piace molto l’idea che prendersi cura sia proprio questo: guardare l’altro con il cuore. La cura è un’attitudine innata nell’essere umano, come negli animali, è qualcosa che facciamo naturalmente perché siamo capaci, competenti e sufficientemente istruiti dalla natura stessa. 

Nel mio caso specifico prendersi cura si è declinato nell’essere mamma e figlia. Ho vissuto l’esperienza di avere dei bambini piccoli e il potere trasformativo della genitorialità. Ho imparato che genitori si diventa: quando nasce un bambino nasce una mamma e anche una famiglia. Come figlia, ho vissuto in casa coi nonni, li ho visti morire e ho sperimentato cosa vuol dire prendersi cura di persone anziane. Oggi ho la fortuna di assistere e aiutare i miei genitori e anche questa è un’esperienza trasformativa, perché figli si resta ma si cambia nell’esserlo. È davvero bellissimo riuscire a guardare la vita nel suo dinamismo, stare in questo dinamismo. 

Il mio prendersi cura è stato, poi, l’incontro con le cure palliative: un incontro che mi ha cambiato la vita. 

Come?

Quando quasi trent’anni fa ho incontrato le cure palliative me ne sono innamorata, semplicemente e follemente. È stato un colpo di fulmine. C’era un responsabile che cercava un medico palliativista, mi sono proposta e l’ho accompagnato in casa di una signora. Ho imparato lì, ricacciando le lacrime in gola, che ci sono verità enormi che possono essere dette senza distruggere chi le riceverà. Ho sentito che l’incontro tra medico e paziente era prima di tutto un incontro tra due persone. Mi sono innamorata dello spazio di relazione che c’era in quello spazio di cura. 

Ho capito che accompagnare le persone – pazienti e familiari – nell’ultimo tratto della vita diventa prima di tutto un viaggio dello spirito.

Quello che non potevo sapere allora è quanto profondamente questo lavoro avrebbe trasformato il mio sguardo sul mondo, quanto la cura della vita sarebbe diventata per me prima di tutto il mio viaggio interiore

Che cos’è allora la cura nel fine vita?

Noi palliativisti siamo medici di frontiera perché lavoriamo sulla frontiera della vita. È un momento in cui “accompagnare”, parola che ha la radice di cum panis, “condividere il pane”, e che vuol dire la riscoperta dell’umanità che ci accomuna, non dei ruoli che ci differenziano. 

Nel fine vita c’è un punto di sintesi molto forte tra corpo, anima e spirito. Del corpo, in genere, ci accorgiamo solo quando non funziona più ed è in quel momento che capiamo che il corpo rotto porta con sé una sofferenza intera, spirituale. Certamente accompagnare alla fine della vita è un esercizio di ritmo, di tempo buono, di cammino con l’altro, perché accompagnare è imparare il ritmo dell’altro, che è fatto di molto rispetto, ma è anche sperimentare la globalità: non parliamo più di dolore del corpo ma di una sofferenza che riguarda l’intera esistenza e che ci riguarda tutti. 

Il fine vita rappresenta così un’occasione unica di riflessione sulla propria morte certamente, ma ancora di più sul proprio vivere, sulla precaria bellezza dell’essere qui nel tempo presente.

Prendersi cura dell’ultimo tratto dell’esistenza terrena, della fragilità nella sua forma più estrema significa innanzitutto incontrare la finitezza delle cose. Ed è un lavoro che si fa in équipe, perché nessuno ha la capacità di sostenerlo da solo: non facciamo medicina palliativa, ma cure palliative.

Che idea si è fatta della dignità nel fine vita?

È un concetto estremamente personale e mutevole, perché l’essere umano ha una straordinaria capacità di adattamento, e che richiede molto rispetto, perché ciascuno di noi ne ha uno proprio e dietro di esso costruisce il suo mondo personale e relazionale. Ecco che di nuovo torna la cura: cura e curiosità hanno la stessa radice. 

Se voglio capire cos’è per l’altro la dignità, devo essere un po’ curioso nel senso bello del termine, senza essere giudicante. Devo capire chi è, entrare in relazione, comunicare e accogliere i suoi bisogni e le sue parole e devo saper stare anche su quell’altalena di desideri e di speranze che le persone e i familiari hanno, soprattutto nel fine vita.

Che importanza ha la comunicazione per un medico palliativista e per la sua équipe?

Imparare a comunicare bene è un processo di apprendimento continuo: si dà molto peso alla comunicazione non verbale, che è sicuramente determinante, ma le parole costruiscono i mondi delle relazioni

Quando conosco i pazienti a me piace molto, anche se richiede tempo, chiedere di raccontarmi la loro storia, perché da qui si capiscono tante cose, a partire dal vocabolario che usano per raccontare di loro e della malattia. C’è poi il tema del linguaggio medico: il linguaggio tecnico-scientifico è bellissimo, è puro e sintetico, ma va usato in determinati contesti. Al di fuori della relazione tra colleghi, noi medici dobbiamo imparare a usare un linguaggio comprensibile per tutti, per chi ha studiato e chi no, non dobbiamo nasconderci dietro parole troppo tecniche.

Il tempo della comunicazione è tempo di cura e su questa capacità di comunicare tutti noi dobbiamo lavorare in un processo di semplificazione, affinché l’altro arrivi a comprendere non il nome della sua malattia ma il significato che questa ha nella sua vita.

Che ruolo hanno i familiari nel percorso di cura?

Fondamentale, perché in cure palliative l’oggetto di cura è sempre il paziente e la sua famiglia, non sono separabili. La famiglia, poi, spesso ha la necessità di essere accudita anche dopo la morte del paziente, perché ci vuole tempo perché le cose acquistino una dimensione di tollerabilità.

Ai familiari chiediamo molto, hanno un ruolo attivo molto importante soprattutto nell’assistenza domiciliare: devono imparare a somministrare i trattamenti e a saper gestire delle relazioni complesse. Un percorso duro, che spesso diventa percorso di crescita anche per loro: qui torna il concetto di reciprocità nel prendersi cura. 

Ci sono casi in cui la famiglia può diventare un ostacolo, quando fatica a comprendere il percorso che sta vivendo: allora il nostro lavoro qualche volta è anche quello di provare a superare il potenziale di rottura, costruire ponti e non muri. Capita per esempio quando la famiglia ha deciso qual è il bene del paziente. Uno dei temi centrali è proprio quello del dire o non dire la verità e noi dobbiamo imparare a sapere che cosa è giusto dal punto di vista legale e che cosa abbiamo il diritto e dovere di fare all’interno della relazione sanitario-paziente. Dall’altra però dobbiamo sapere che non può essere solo la legge a guidarci. La legge deve essere al servizio dell’uomo, quindi dobbiamo avere delle competenze forti per capire quando possiamo fare determinate cose. Questo di nuovo è un esercizio di impotenza: entriamo nelle case con umiltà e facciamo quello che possiamo di fronte a queste situazioni.

Il dolore ci riguarda tutti, eppure viviamo in una società che lo ha rimosso, che rifiuta la lezione della sofferenza: qual è invece l’insegnamento che possiamo trarre dal dolore?

Il dolore ci riguarda tutti inevitabilmente. Quello su cui possiamo agire è la capacità di accoglierlo, caricandolo di una rabbia che acuisce il senso di ingiustizia, o provando a trasformarlo, nella comprensione che la sofferenza è un’esperienza universale e che quindi in qualche modo ci accomuna e ci rende fratelli, è un’esperienza di umanità. 

Per me la sofferenza è un invito a vivere con pienezza il presente, a fare una selezione delle cose per cui vale la pena di stare male. 

Anche i malati a fine vita fanno un setaccio delle cose che contano e quello che resta è sempre l’amore in tutte le sue manifestazioni.

Da 27 anni non ho mai passato un giorno senza pensare che potevo morire e questo non mi dà nessuna tristezza. Mi fa pensare e mi chiedo ogni giorno: la bellezza di oggi che cos’è? Al tempo stesso è un esercizio molto bello di gratitudine, perché si scopre che in ogni esperienza si può essere grati e che la gratitudine non dipende da qualcosa che sta fuori di noi, ma dallo sguardo che abbiamo sulle cose. 

La cura del fine vita è un invito a d accogliere il presente nella sua pienezza, è desiderio di riempire di significato i giorni, di riconoscere la vita che c’è in ogni momento, fino all’ultimo, aggiungere vita ai giorni più che giorni alla vita.

Io ho avuto la fortuna straordinaria di fare un lavoro che considero un privilegio, che farei anche se non mi pagassero, perché mi piace ed è un esercizio spirituale continuo. 

Come il Covid ha cambiato il vostro modo di operare?

La pandemia da Coronavirus ci ha tolto naturalezza e ha creato barriere: l’hospice è un posto aperto per definizione, il domicilio è un posto in cui sono inevitabili i contatti fisici. Nel pieno della pandemia non è stata la distanza in sé a disorientarci, ma la sensazione di separazione. La fine della vita è il tempo in cui proviamo a ristabilire contatti. Questo richiede vicinanza fisica, abbracci compresi, esige la possibilità di leggere un volto, le sue mille impercettibili espressioni, i cambiamenti millimetrici che rivelano più di molte parole. Abbiamo dovuto reinventare il nostro modo di prenderci cura, imparare nuovi riti.

Oggi va meglio, ma siamo ancora molto rigidi con le regole perché i nostri malati sono ancora molto fragili.

La medicina moderna è pronta di fronte alla crescente cronicizzazione delle malattie? È sostenibile una medicina che punta alla cura totale del corpo costi quel che costi?

Non credo. Reputo necessario avviare un cambiamento culturale e portare, o meglio riportare, una dimensione umanistica all’interno della medicina: ricondurre la medicina al suo ambito naturale che non è solo quello scientifico ma è anche filosofico, perché ci sono tutta una serie di scelte che richiedono non solo delle competenze tecnico-scientifiche, ma quelle che Carlo Maria Martini chiama “un supplemento di saggezza”. Altrimenti smette di essere la tecnologia al servizio dell’uomo, ma diventa l’uomo al servizio della tecnologia.

Serve anche aiutare le persone a comprendere che la medicina non è onnipotente, ma è scienza ed è in apprendimento continuo. Il Covid ce lo ha insegnato prepotentemente. Certo, noi medici per primi dobbiamo smettere di vendere tutto come una certezza perché non sappiamo stare dentro l’incertezza. Dobbiamo affrontare questa nuova dimensione della cronicità e aiutare le persone a sapere che dovranno vivere con dei limiti. Anche il mondo sanitario va organizzato diversamente, ma bisogna muoversi velocemente perché, alla luce del numero elevatissimo di anziani nel nostro paese, così come siamo oggi non ce la faremmo a rispondere.

Qual è la situazione del caregiving in italia?

Non c’è una legge che lo regoli ed è un sistema che di fatto si regge sulle famiglie e sulle donne in particolare. Secondo gli studi più recenti, il caregiving richiede un impegno medio di ventiquattro ore a settimana e, in varia misura e con varia destinazione, coinvolge fino al 73% dei lavoratori dipendenti. In Italia svolge questa doppia funzione – lavoratore e caregiver – il 30,5% degli over 50. È banale ma, facendo figli sempre più tardi, non appena finisce l’attività di caregiving rivolta a loro, inizia quella rivolta ai genitori che nel frattempo sono inevitabilmente diventati anziani. E la successione temporale resta la migliore delle ipotesi, perché spesso è di una sovrapposizione che si tratta. E se questo è lo sguardo sul presente, sarà necessario sviluppare un’attenzione previdente sul futuro per non farci cogliere troppo impreparati dal preannunciato invecchiamento della popolazione a fronte di un drammatico crollo della natalità. 

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