Karen Guggemheim sul palco del World Happiness Summit 2022
Karen Guggenheim

Rendere possibile per tutti la scelta della felicità

Quando dieci anni fa, madre di due bambini, ha perso il marito in pochi giorni per una malattia, si è trovata di fronte a una scelta: chiudersi in quello che era accaduto o uscire dall’immagine e dallo stato di vittima della vita per darsi uno scopo, trovare un senso a quanto era accaduto e condividere il suo percorso di scoperta di una nuova possibilità di felicità con gli altri.

Karen Guggenheim, ha voluto così imparare a conoscere la felicità come scienza che si può apprendere ed insegnare e nel tempo ha fondato il World Happiness Forum (WOHASU), il Summit Mondiale della Felicità, che per la prima volta esce dagli Stati Uniti e approda in Italia, nella città di Como, dal prossimo 24 al 26 marzo. Il summit italiano sarà anche l’occasione per lanciare WOHASU Wellbeing at Work, un think tank dedicato al benessere sui luoghi di lavoro. 

Un viaggio intenzionale

Ma che cosa è la felicità per come la intende Karen e per come verrà trattata nel corso dell’evento? La nostra chiacchierata con lei parte proprio da qui.

Che cosa è la felicità?

Posso dirti cosa sia la felicità per me e cosa ho imparato negli ultimi dieci anni dalla morte di mio marito, quello è stato il momento in cui ho deciso di essere felice, senza realmente sapere come fare perché avevo una laurea in psicologia tradizionale, ma non sapevo nulla della psicologia positiva. La definizione a cui mi piace pensare è quella di cui  trattiamo al World Happiness Forum e in termini accademici è fatta di due elementi: uno emozionale, tutti noi conosciamo e sentiamo cosa sono le emozioni positive, l’altro cognitivo e ha a che fare con ciò che possiamo controllare, per esempio l’essere compassionevoli, gentili, allineati con il proprio purpose, il trovare un senso nelle nostre vite, l’investire nelle nostre relazioni, il prenderci cura del nostro corpo fisico, l’essere consapevoli, responsabili dell’ambiente. La felicità è un concetto sfaccettato, perché, parlando di emozioni positive, non puoi sentirti felice per tutto il tempo: le persone non sono fatte così, la vita non è fatta così, ma possiamo fare qualcosa per darci l’opportunità di sperimentare più momenti di questo tipo, guardando alla felicità indirettamente, facendo quello che ho appena condiviso.

Ascoltando la tua storia, sembra che per cercare la felicità vera ci serva un trauma. Hai parlato di un ‘viaggio intenzionale’, una scelta, come ha fatto il primo passo?

Quando subiamo un trauma, siamo scioccati, scossi dalla nostra solita vita quotidiana, a volte una vita davvero buona. Io ho sentito che la mia felicità era fuori dal mio controllo, era esterna, accadeva se qualcuno faceva qualcosa di carino, se andavo in qualche bel posto, se i miei figli andavano bene a scuola, ma non avevo una connessione diretta con la mia felicità, non sapevo di poter fare qualcosa al riguardo, ‘intenzionalmente’, come hai sottolineato, e lo shock è stato come un bivio in una strada: puoi andare a destra o a sinistra. Ho sentito che per poter sopravvivere a quella esperienza dovevo mirare alle stelle, dovevo trovare un modo per sentirmi felice perché il dolore era troppo grande e se avessi voluto solo stare bene, tornare ‘normale’, non ci sarei riuscita, inoltre volevo essere di aiuto.

Ho deciso che non volevo essere identificata solo con quello che mi era successo, che non sarei stata una vittima ma l’eroina della mia vita. Ovviamente non provavo emozioni positive in quel momento, c’è voluto tanto tempo per tornare a sentirle, quello che ho fatto è stato concentrarmi su quale fosse lo scopo della mia vita, su come dare un senso a quello che era successo. Ho scelto di tornare a formarmi e prendere un master in MBA, anche perché dovevo provvedere ai miei figli, e quattro mesi dopo la sua morte ero a Georgetown, Washington DC, da lì, lentamente, senza ‘volere’ mi sono data il permesso di essere felice ancora.

Ricordi un momento in cui puoi dire hai sentito che tornavi alla felicità?

Ricordo che un anno dopo la sua morte, ero con i miei amici, colleghi all’università, e qualcuno ha detto qualcosa di davvero divertente; io riflettevo dentro di me, analizzavo e pensavo ‘questo è divertente’, ma sono una vedova, posso ridere? E poi mi sono detta, è divertente, è naturale, quindi, riderò ed è stato come con quei tronchi che bloccano il fiume, quella risata ha mosso le mie emozioni. Da lì ho pensato, se sono riuscita a superare il primo anno, il dolore se ne andrà e passerà il primo compleanno, il primo Natale, il primo anniversario… il primo anniversario è arrivato e faceva ancora male ed è stato devastante perché ho realizzato che, in qualche modo, avrebbe fatto male per il resto della mia vita.

Cosa è successo a quel punto?

Impari a conviverci e al tempo stesso anche a lasciare andare.

La felicità non fiorirà mai e poi mai nella tua vita se non le fai spazio.

Se sei rancoroso, arrabbiato, maligno, negativo, non metterà radici. Ecco perché il mio libro si intitola ‘Coltivare la felicità’: è come un giardino, devi creare un ambiente adatto e per arrivarci puoi fare alcune cose, come essere compassionevole, gentile, empatico, clemente, non sei tenuto a fare niente di tutto questo, ma questi modi di essere sono il terreno che stai preparando perché la tua felicità possa crescere.

E poi la natura fa il suo corso, perché, indovina un po’, ricerche hanno dimostrato che siamo tutti collegati e stiamo bene quando facciamo del bene agli altri; quindi, quando sei gentile ti senti meglio e le persone gentili vivono anche più a lungo; le persone felici vivono una media di sette anni in più e vivono meglio.
Non ci sono svantaggi nel vivere la vita secondo questi principi, che ciascuno può adattare a sé come unico esperto della propria felicità.

Vorrei sottolineare due punti importanti: che stiamo parlando di felicità, più che di piacere, e che accrescere la tua felicità non deve costare l’infelicità altrui.

Dici che la felicità può essere insegnata e appresa, come si insegna a fare il primo passo?

Il primo passo è la consapevolezza. Se non sei consapevole, non farai nessun cambiamento e non solo in questo campo, in tutto, noi creiamo la nostra realtà e poi le andiamo addosso, di questo parlavo quando dicevo della scelta di essere vittima o eroina.

I fatti accadono, non posso farci niente, posso solo fare qualcosa rispetto alla mia reazione. Questo è stato molto motivante, perché mi ha dato la sensazione di poter agire nella mia vita, di poterne diventare un partecipante attivo.

Si faranno errori, ma non parliamo di fallimento, questo è un altro modo per limitarsi: gli esseri umani non falliscono, imparano. La natura della vita è che non possiamo fare le cose alla perfezione, perché non siamo perfetti, ad esempio, non siamo nati per correre una maratona, per suonare il piano come un concertista, dobbiamo imparare a farlo esercitandoci.

Di cosa dobbiamo avere consapevolezza?

Il primo passo per questa felicità intenzionale è la consapevolezza che possiamo cambiare. Sappiamo ora e la scienza ha provato che possiamo cambiare la nostra mentalità. Credevamo che il cervello si formasse e restasse fisso nella infanzia e ora sappiamo che grazie alla sua neuroplasticità possiamo creare nuove connessioni neurali e imparare cose in modo differente. Pensa a un paziente colpito da un ictus che ha perso la sua capacità di camminare e può reimparare perché il cervello crea nuove connessioni facendo pratica.

Lo stesso può accadere per la mentalità.

Se, per esempio, sei cresciuto in una famiglia o una comunità dove tutti erano negativi, con ogni probabilità, crescerai con un punto di vista negativo, conosciamo tutti persone del genere, che si lamentano sempre, vedono qualcosa di negativo nel sole, perché si scotteranno, ma sarà un problema anche se piove. La curiosità, ad esempio, è un grande indicatore di felicità, possiamo trovare modi adatti a noi per spostarci da una mentalità fissa a una evolutiva.

È oggettivo che molti di noi spendono tanto tempo pensando a cose che non che non accadranno mai nella loro vita; perché non usare quel tempo per pensare a come sarebbe se andassero bene, abituandosi a una mentalità positiva?

Naturalmente, se la casa brucia, la lasci e non resti lì pensando che sei positivo e tutto andrà a posto da solo, è tutto basato sulla realtà, ma, di massima, noi siamo fortunati, stiamo bene e non ce ne rendiamo conto. Per questo la gratitudine è molto importante, è molto difficile essere infelici e grati allo stesso tempo: possiamo essere grati per le nostre famiglie, le nostre case, i nostri cani, per questo e quello, e possiamo iniziare a lavorare su ciò che vogliamo cambiare nella nostra vita, su ciò che ci rende infelici per cambiarle e andare verso la vita che vogliamo avere.  

Connessioni di qualità

Hai parlato di connessioni neurali, l’evento di Como mette al centro un altro tipo di connessioni, quelle sociali, perché sono così importanti?  

Perché noi siamo esseri sociali, siamo biologicamente fatti per connetterci per la sopravvivenza della specie.

Il più forte indicatore della nostra felicità e benessere è lo stato delle nostre relazioni e connessioni sociali.

Durante la pandemia, per esempio, da subito abbiamo sottolineato che non si doveva parlare di distanziamento sociale, era una questione di distanza fisica e, anzi, avremmo avuto bisogno di maggiori connessioni sociali proprio in quel momento. Ricordiamoci che noi puniamo le persone isolandole socialmente, si chiamano prigioni, è estremamente dannoso per gli individui sperimentare un senso di solitudine e avere connessioni sociali negative.

C’è uno studio di Harvard sulla felicità, il più lungo nel tempo, durato 87 anni nei quali sono state seguite le persone coinvolte, i loro figli e così via: lo studio ha mostrato che il più grande indicatore della nostra felicità è la natura delle nostre connessioni sociali, non si tratta di avere un milione di follower su Instagram o relazioni superficiali, si tratta di persone su cui puoi contare, riguarda la qualità delle relazioni.

A proposito di pandemia, in questi anni siamo stati nutriti di paura, diffidenza, a volte anche odio, come possiamo essere positivi quando veniamo mossi in un’altra direzione?

Hai ragione, perché quando agiamo in base alla paura, individuale o collettiva, non può venire niente di buono, lì si creano divisioni e aggressività. E siccome è tutto basato sulla paura, la domanda è come iniziamo a creare punti di connessione attorno a uno scopo condiviso? Ci deve essere qualcosa che tutti vogliamo raggiungere e in cui crediamo, così invece di guardare a quello che ci divide dobbiamo decidere consapevolmente di guardare a ciò che ci unisce.

Ancora una volta, questo richiede consapevolezza e poi azione, ancora una volta, il primo passo è comprendere che è possibile, che se hai un problema, piccolo medio o grande, e dici è impossibile risolverlo o è impossibile parlare con quella persona, lo sarà.  

Non è un processo automatico.

Non dico sia facile, ma pensa a quanto tempo ed energia impieghiamo nel detestare, nell’aggredire, nell’ammalarci; costruire benessere richiede uno sforzo, certo, a volte un grande sforzo, perché abbiamo consuetudini di negatività, paura e aggressività alimentate dai media e a volte dall’ambiente culturale e politico.

Dobbiamo prendere una decisione: seguiamo la corrente o decidiamo per noi stessi di vedere quale contributo possiamo dare, in primo luogo dentro di noi e poi nelle nostre famiglie.

Quando ho deciso di vivere e scegliere la felicità, penso sia successo quattro giorni dopo la sua morte, non avrei mai immaginato di organizzare un giorno il World Happiness Summit e costruito un movimento, questo non significa che tutti debbano fare qualcosa del genere, ma ciascuno può creare un cambiamento, se non pensi che puoi farlo allora non lo farai.

Vivere nella paura, nell’odio o nella rabbia, però, non fa stare tanto bene, sia che tu abbia ragione o torto, perché, pensiamoci, la maggior parte di noi è arrabbiata o ferita per una ragione, a meno che non siamo instabili mentalmente, ma dobbiamo prendere una decisione consapevole di andare oltre, per il bene individuale e collettivo.  

Possiamo passare tutto questo ai giovani?

Questo è l’obiettivo. Ho cercato di entrare nel sistema scolastico e sfortunatamente è molto politicizzato, è impossibile accedere. Allora ho cambiato la mia strategia, che è quella di andare nei posti di lavoro in modo che siano i genitori a chiedere tutto questo per i loro figli. Se per esempio nella scuola di tuo figlio non si insegnassero matematica, scienza o lettura busseresti alla porta della preside per dirle che non esiste.

Foto di Daniel Reche

Parlare agli adulti per aiutare i giovani

La mia speranza è che una volta trasformati i luoghi di lavoro, già sta iniziando e sono peraltro molto più avanti delle scuole, saranno i genitori a chiedere insegnanti empatici, gentili e che passino tutto questo ai ragazzi, perché oggi non viene insegnato loro nulla di se stessi, di come si possano fare scelte fuori da schemi fissi, cosa siano la felicità e  connessioni sociali sane.

E c’è l’insegnamento più importante: noi diciamo loro solo vai e fai il contabile, l’avvocato, l’architetto, continuiamo a insegnare che la felicità è esterna, il successo è esterno quando, intuitivamente sappiamo e ricerche hanno provato, la felicità e il benessere sono un lavoro interiore. Li mandiamo a cercare sé stessi ‘fuori’, quindi per forza si sentono scollegati, persi, in particolare con quello che è successo con la pandemia. Prima di quel momento, si iniziava a confrontarsi con la possibilità della morte magari a partire dai 60/65 anni, oggi hanno dovuto pensarci nella loro adolescenza e non sarebbe dovuto mai accadere.

Se la felicità è una scelta, è possibile farla senza giustizia sociale?

Incoraggiamo i governi a guardare a questi principi e a iniziare a definire il successo di un paese oltre il PIL, per un individuo abusato e senza giustizia sociale è incredibilmente difficile stare bene. Credo abbiamo la responsabilità sociale di creare ambienti, nella nostra famiglia, al lavoro o nelle nostre comunità, che contribuiscano a far sì che le persone possano fare la scelta: la scelta è individuale, come minimo, l’ambiente non deve ostacolare la tua capacità di farla.

Ci sono alcune persone eroicamente forti che possono resistere in situazioni davvero sfidanti e trovare appagamento e significato, ma penso che su larga scala sia incredibilmente duro da fare e per questo abbiamo la responsabilità di creare un contesto in cui le persone possano prosperare.

Se guardiamo in particolare agli ambienti di lavoro, la leadership ha un grande ruolo per favorire una cultura che non sia tossica, in modo che i singoli dipendenti possano fare la giusta scelta, prendersi cura della loro salute fisica, entrare in comunicazione con i colleghi in modo costruttivo: non dobbiamo essere sempre tutti d’accordo, ma possiamo dissentire gentilmente.
Puoi conservare la tua integrità di pensiero e dissenso e puoi farlo mantenendo la possibilità di comunicare.

Sul tema leggi anche:

Meditazione, porta della felicità
Libri: Ecologia della felicità


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Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva.

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