Virgilio Sieni in uno scatto che lo ritrae mentre compie un gesto in una performance
Virglio Sieni

L’Arte del gesto per ‘impararsi’ a vicenda

Virgilio Sieni, fondatore dell’Accademia sull’Arte del gesto, è un danzatore e coreografo, attivo in ambito nazionale e internazionale con le massime istituzioni teatrali, musicali e museali.
Il Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni porta avanti la sua ricerca ,ponendo il corpo, la danza e i linguaggi contemporanei dell’arte in dialogo con le discipline umanistiche e con il territorio nei suoi aspetti architettonici e urbanistici. In particolare, con l’Accademia sull’Arte del gesto, sviluppa un programma inedito di formazione verso la creazione fondato su progetti che accomunano danzatori e persone di tutte le età: dall’infanzia alla terza età fino ai non vedenti.
In questo incontro ci racconta genesi, essenza e progetti dell’Accademia.

Com’è nata l’Accademia sull’Arte del Gesto?

L’accademia nasce istituzionalmente nel 2007. Già da diverso tempo conducevo dei progetti rivolti ai cittadini e a tutte le forme di fragilità e la nascita è stata la formalizzazione di un percorso avviato precedentemente. L’idea dell’Accademia è rivolta principalmente ad un corpo allo stesso tempo diverso e comune, al corpo di tutti che esprime sempre diversità e, dunque, fuoriesce da tutto quello che rappresenta un mondo codificato legato al professionismo, nel mio caso ai linguaggi del corpo e della danza. La necessità era quella di indagare e di convivere e condividere con cittadini e persone fragili tutte le forme del corpo nelle loro diversità, dove la mancanza è un qualcosa in più e non un qualcosa in meno.

In che modo la connessione tra la danza e il linguaggio del corpo con la natura e l’arte possono essere importanti per aumentare il benessere di una persona?

Il discorso è molto delicato ma evidentemente, nel momento in cui una persona porta attenzione al gesto. A come può avvenire, ricavandone e rintracciandone le forme di origine diversa rispetto al solito. Viviamo in una dimensione sociale in cui è giudicato positivamente l’elemento della velocità, della connessione repentina, dell’elemento produttivo. Iniziare e concludere produttivamente un gesto. Nel momento in cui una persona trasmette attenzione e in certe fasi rallenta e sosta, inizia un percorso in profondità legato alla ricomposizione di certe operazioni anche a livello neurale. Tutto questo porta a scoperte nuove. Scoperte che hanno a che fare con il rivivere il modo di esserci nuovamente. Non dentro il corpo perché lo si abita sempre ma in una forma diversa che aderisce a tanti pregiudizi che vengono via via scalfiti per condurre al benessere.

Qual è l’impatto positivo maggiormente rilevante che riscontra nella sua Accademia, tra persone comuni che si affacciano a questo mondo e si esibiscono davanti ad altre persone?

È un impatto diverso da individuo ad individuo. Naturalmente, la fase finale relativa alla presentazione davanti ad altre persone la ritengo determinante perché in quel momento il corpo degli individui assume un atteggiamento diverso. La chimica vira quando siamo di fronte agli altri, il nostro progetto di corpo è in relazione con l’altro e così abbiamo salvato la specie, da questo punto di vista. Abbiamo bisogno del confronto. L’elemento performativo è determinante nel momento in cui tutto il processo di lavoro fatto in quel momento continua ad elaborare le forme di vicinanza e di prossimità con l’altro. L’idea che viene avallata è quella di trovare una forma di corpo che si rapporta all’accoglienza dello spazio e soprattutto al sentirsi accolti da esso.

Partecipazione rigenerativa

In tutto questo c’è un’analisi e uno studio nello stare nei luoghi, una forma partecipata; non a caso molti progetti si svolgono in luoghi da rigenerare, in luoghi che concretamente devono tornare a far parte di una geografia emozionale della città. Immagino i piccoli musei disabitati, immagino luoghi abbandonati. Tornare ad abitarli significa non solo portarci la performance ma abitarli con fasi di lavoro di durata, instaurando una frequentazione continua.

In tutto questo c’è anche il concetto di comunità, in un’epoca in cui forse questo concetto è cambiato. Quanto è importante il vostro lavoro nel creare aggregazione?

La comunità è legata all’idea di costruire insieme delle cose. Non solo costruire ma sostenersi in un discorso anche di compassione. La società contemporanea ti conduce invece ad una disgregazione. Paradossalmente la città è sempre più piena di residenti, e non mi riferisco a quelle turistiche che sono ormai alla deriva da questo punto di vista; dove non c’è residente non esiste città.

Il senso di comunità oggi principalmente lo si ricrea partendo quasi dalla molecola; ogni persona è in relazione con un sistema molecolare e l’incontro con l’individuo è una forma positiva.

Se questo incontro viene stimolato e allargato in condizioni diverse e affrontando temi diversi, uscendo da tutto quello che è una patologia quotidiana di vivere la città, evidentemente ciò contribuisce a costruire tutte le forme necessarie affinché le persone possano convivere: l’ascolto e il sapere come sostenere l’altro. Noi lo facciamo a livello fisico ma è una metafora del modo di stare con l’altro in prossimità dell’altro, riuscire a riconoscervi il proprio modo di muoversi. La memoria è intesa non solo centripeta ma che si vede nei corpi degli altri, riconoscendovi l’elemento della memoria. Tutto questo crea un forte senso di co-partecipazione e vedo che tutte le volte emerge l’idea di comunità importante.

Portare queste performance in luoghi diversi dal palcoscenico in qualche modo vi mette in gioco come artisti. Il teatro e la danza si alimentano anche con il contatto tra le persone.

Certamente. In questi giorni sono a Malta a fare un lavoro con un gruppo di donne cercando di trasformarle attraverso un lavoro sul corpo dei proverbi misogini maltesi, ambientato su una scogliera che guarda l’Africa, vicino ad un parco archeologico. In questo caso è la scogliera e in altri un luogo pubblico fragile come potrebbe essere un piccolo spiazzo in una città. Sono tutti luoghi che richiedono una frequentazione, non soltanto andare lì e fare lo spettacolo.

In questo c’è la vera importanza dei progetti che facciamo: abitare dei luoghi considerati inabitabili o comunque scartati da un flusso che non è produttivo.

Si ritorna all’idea di teatro molto antico, quello che nasce in una dimensione di aperto, di luce naturale, che sottrae tutto quello che è l’elemento invasivo di una tecnologia teatrale. È un lavoro legato ad una sottrazione di tutto quello che è l’apparato che si porta dietro il teatro; invasivo, inquinante e consumistico, perché le attrezzature costano molto.

Nel vostro viaggio itinerante seguite un percorso preciso tra questi luoghi? C’è qualcosa che vi spinge in una determinata direzione e luogo?

Nel momento in cui c’è la proposta e inizia il progetto è importante per me conoscere il luogo, la geografia dello spazio e tutto quello che significa appunto geografia, tutte le restituzioni del territorio, non solo le cose naturali ma anche quelle che lo rendono in conflitto con le cose. È importante, in questo nomadismo degli spazi che andiamo a cercare. Non andiamo verso una bella piazza o una bella facciata. È un nomadismo che cerca quasi delle tracce simboliche dei luoghi, a volte tracce perdute. Quindi, vengono privilegiati dei luoghi che vanno dalle rovine alle macerie, a qualcosa che si connette con il recupero. Adottare un sistema di piccole palestre di provincia come luoghi di lavoro e mettere in rete cinque o sei palestre sperdute significa originare l’idea di comunicazione fra uno spazio e l’altro.

Originare comunicazione

La palestra non viene più vista solo per quell’uso ma diventa uno spazio utile per la cittadinanza, per fare altro. E così via. L’idea di nomadismo si lega all’idea di corpo. Un’idea antica di proiezione del corpo nel territorio e osservare come può vedere le sue forme organiche; dove sta il cuore, dove sta il fegato etc. Senza creare città ideali ma lavorando con il paesaggio e con quello che dal territorio emerge.

Come mai avete scelto proprio il termine ‘gesto’ per l’Accademia?

Cercavo di dare una definizione che potesse immediatamente, a livello percettivo, non far pensare ad un’idea di danza sbagliata. Sappiamo che esiste una percezione della danza in una certa maniera nell’immaginario comune. Il gesto è collegato ad un patrimonio umano che si apre all’infinito. Ogni gesto esprime il senso dell’infinito. Come dicevo prima, a me interessa moltissimo superare il concetto di gesto produttivo che per noi è necessario ed entrare in una dimensione di gesto. Non un gesto astratto, perché qualsiasi gesto è in relazione con la nostra funzionalità e la nostra emozione ma entrare in un gesto che diviene dispositivo, con il quale l’uomo, sviluppandolo, può emanciparsi, principalmente. È un dettaglio determinante per la crescita di tutti i percorsi.

Invece, ‘Accademia’ e ‘Arte’ perché l’idea era quella di creare un contesto legato a forme di trasmissione, quindi preparare le persone a condurre un certo tipo di lavoro e non improvvisarsi semplicemente in una dilazione immediata ma far sì che tutto questo possa diventare una materia di studio. Ovviamente è molto complesso quando si inizia ad analizzare il gesto e lo si comincia a trasmettere perché una persona impara subito e non è unilaterale. È un ‘impararsi a vicenda’. Capire soprattutto come porsi in ascolto dell’altro e capire come l’altro diventa una fucina del gesto che si vuole trasmettere.

Unite uno sguardo a quello che era uno stato brado dell’arte ad una visione in direzione del futuro.

Assolutamente, perché in quanto esseri viventi siamo proiettati verso il nuovo, predisposti al nuovo. Allo stesso tempo, l’elemento diviene per me fondamentale nel momento in cui si intende l’archeologia come qualcosa che ci sta facendo delle domande e noi dobbiamo trovare delle soluzioni. L’archeologia che portiamo attraverso il nostro scheletro, attraverso quello che non è il passato ma un tempo che convive ancora con noi, se lo si osserva da un punto di vista orizzontale. Non è passato, ancora ci pone delle domande. Far coincidere tutta questa pressione che viene dal tempo archeologico con l’elemento odierno credo sia una spinta fondamentale per intravedere il concetto di nuovo.

Da Malta dove si svilupperanno i vostri progetti?

Ho terminato da poco un lavoro con dei ragazzi ciechi e delle danzatrici per far capire come agire con queste persone senza la vista e come mostrargli uno spettacolo; gli hanno spiegato uno spettacolo che avveniva in diretta semplicemente muovendoli e non narrandoli. È un lavoro molto importante per me, una trasmissione che crea una forma empatica con l’altro. C’è un progetto molto bello che inizierà tra un po’ in India sull’idea di giardino del corpo, con giardinieri e danzatrici indiane.

Virgilio Sieni, ph Umberto Visintini

Come sappiamo, in India c’è un concetto di corpo estremamente immateriale e non così organico come noi lo pensiamo, e dunque mi attrae molto trovare delle forme di trasmissione tra l’uno e l’altro. È in programma anche un bel progetto che farò al museo d’arte contemporanea di Nuoro legato alla tattilità; incontrerò per il secondo anno delle donne nuoresi con le quali cercheremo di capire, attraverso la lentezza, se la ritualità contemporanea può essere ancora un elemento fondante della costruzione della città. Sono tutti progetti, al di là delle produzioni della compagnia, che mi portano sempre ad indagare territori e persone.

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