Monia Caramma
Monia Caramma

In cerca della verità sul cibo

Monia Caramma è relatrice, formatrice di cultura alimentare e autrice del libro ‘La verità vi prego sul cibo’, pubblicato nel 2023.
Di se stessa racconta: “Ho iniziato il mio percorso di ricerca e approfondimento nel campo dei cereali più di vent’anni fa, e ben presto la filosofia in cui mi sono riconosciuta è diventata una missione: promuovere una cultura alimentare di valore attraverso la divulgazione di un’informazione libera e corretta, contribuendo così a creare una maggior consapevolezza nella scelta e nel consumo del cibo”.
In questa intervista muoviamo con lei qualche passo, verso questa consapevolezza.

Quanto conosciamo del cibo che mangiamo?

Conosciamo, per quanto concerne composizione e provenienza, circa il 30%. La punta dell’iceberg. A meno che l’alimento sia poco trasformato, come una farina o un chicco di frumento, dietro ci sono tutte le condizioni legate alla coltivazione che non conosciamo, dall’allevamento al processamento e soprattutto ai coadiuvanti che per legge non vengono indicati in etichetta. Un esempio eclatante è quello del vino, nel quale sono presenti sessantasei coadiuvanti di produzione, previsti da un disciplinare mondiale. È una condizione assolutamente condivisa e normale dal punto di vista legislativo. Nel biologico sono cinquanta e pressoché assenti nei vini naturali. I consumatori spesso danno la colpa del mal di testa ai solfiti ma in realtà è la presenza dei 66 coadiuvanti di produzione. All’interno ci può essere di tutto: colla di pesce, caolino, derivati dell’uovo, glutine o enzimi. Un altro esempio è il pane, mi riferisco a quello che si trova comunemente in distribuzione. Al suo interno si trovano più coadiuvanti che ingredienti.

Nel titolo del suo libro ha inserito un ‘vi prego’, riferimento chiaro all’urgenza dell’argomento in oggetto. Era questa la sua intenzione?

Si tratta proprio di questo. Un’urgenza. Non è più tollerabile. Pochi giorni fa leggevo su un giornale che un dottore ‘star della tv’ si soffermava sull’aumento di tumori nei giovani asserendo che non si conoscono le cause. Invece, se guardassimo in che modo è composto il cibo lo capiremmo molto bene. La quantità di interferenti endocrini utilizzati nel mondo dell’alimentazione è elevatissima, perché sono nei pesticidi, negli erbicidi e negli sterilizzanti. L’ossido di etilene, presente su tutto ciò che è extra UE, è un interferente endocrino, è cancerogeno mutageno. Per carità, EFSA avvisa dei limiti che, tuttavia, erano presenti anche sul biossido di titanio. E se Francia e Svizzera non avessero insistito per eliminare l’E171 noi continueremmo a mangiare cibo cheratogeno.

L’inganno delle due ‘p’: pubblicità e pigrizia

La scienza è in evoluzione e anche il principio cautelativo di EFSA lo è rispetto a ciò che sappiamo oggi. Se osserviamo il riepilogo di EFSA scopriamo che non sono riusciti ad arrivare ad una conclusione perché manca il materiale. La chimica è più veloce della ricerca scientifica, hanno più risorse economiche e noi consumatori purtroppo siamo tanto esposti.

Il titolo è davvero un’emergenza, è un invito ad informarsi, a studiare, a ricercare.

A non fermarsi alla pubblicità che propina ‘zero residui, zero glifosato’, perché la maggior parte delle volte sarà davvero ‘zero glifosato’ ma le altre cinquantaquattro sostanze chimiche analizzate nella multiresiduale?

L’alimentazione consapevole oggi è totalmente una scelta? E quanto si gioca sulla pigrizia del consumatore?

Si gioca tanto su quest’ultimo aspetto. Penso, ad esempio, a uno spot in cui una coppia giovane mette il piatto congelato nel forno e nel frattempo balla. È come se il cibo fosse diventato qualcosa con il quale ti sfami e qualcuno lo prepara per te. C’era una pubblicità tanti anni fa del brodo che diceva: “Tu lo fai così. Noi lo facciamo uguale ma più in grande”. Non è vero perché tu ci metti gli antischiumogeni siliconici e io non li metto, ad esempio.
Essere consapevoli in questo mondo è un esercizio morale, un esercizio di forza di volontà, perché non è facile. È molto più facile tapparsi gli occhi e le orecchie e acquistare al supermercato ciò che troviamo sullo scaffale. Essere consapevoli richiede una grande capacità di autocontrollo, mettersi in discussione, una condizione non più tanto diffusa.

Il libro funge anche da sostegno. Colpevolizzare il consumatore è controproducente, è d’accordo?

Esatto. Una delle cose che mi dicono più spesso è ‘Allora cosa mangio?’. Vuol dire che sei nella fetta di persone che chiudono occhi e orecchie. Perché prendere l’argomento dal verso positivo ti permette di scoprire un mondo che non è nelle pubblicità. Un mondo di tanti alimenti. Chiaramente stagionali, non puoi avere il pomodoro a dicembre e l’uva a giugno. Però hai tanti alimenti su cui basare l’alimentazione. C’è una ricchezza territoriale nascosta a quel gruppo che si tappa occhi e orecchie. Ed è importante che si riscopra.

Dal punto di vista collettivo cosa si sta facendo, se si sta facendo qualcosa?

Per quanto concerne la collettività, i consumatori consapevoli stanno capendo che hanno la possibilità di influenzare il mercato e ciò è molto importante perché finalmente usciamo dalla logica individualista o dall’essere separati, e in questo i social ammetto che aiutano molto. Si esce da una logica che dice ‘io sono solo, cosa posso fare?’.

Si cambia ragionamento: se siamo in tanti possiamo fare un gruppo d’acquisto e andare dall’agricoltore dividendoci le cose.

E poi c’è una nuova coscienza collettiva che ci fa comprendere di poter influenzare le industrie alimentari. Ciò avviene tramite la continua richiesta al servizio clienti e quando quest’ultimo risponde in modo ambiguo e non corretto il consumatore si arrabbia e persiste, così come nel controllo delle etichette. Sono molto contenta perché c’è una nuova riscoperta. I social aiutano in maniera notevole.

Come si è arrivati a questo punto? Questa metodologia di consumo è legata anche agli altri settori?

 È sicuramente legata a tutti gli altri settori. Il food per alcune persone è una moda e poi giungono le tendenze degli alimenti in cui trovi robe astruse provenienti da tutto il mondo, fondate sul concetto maggiormente becero della globalizzazione, lo stesso dell’abbigliamento mordi e fuggi. In questo tipo di food non conosciamo i reali costi. Se nell’abbigliamento il problema è lo sfruttamento della manodopera, in agricoltura abbiamo il caporalato e uno sfruttamento terribile degli agricoltori extra UE. Pensiamo ai disastri della quinoa dal punto di vista sociale ed economico, oppure cosa stanno facendo le banane, il cocco o la tapioca.

Tutti questi costi non li conosciamo ma dovremmo esserne consapevoli, dovrebbero emergere.

Consideriamo quanto costa un riso basmati che arriva dall’India o dal Pakistan, all’interno di un container. Oggi, con la crisi energetica, non costa meno di 5.000 dollari e dentro ci sono all’incirca 15 tonnellate. Però quel riso arriva in Europa, dev’essere smistato, insacchettato, logisticamente distribuito e giunge al supermercato che rincara del 40% in media ed è un riso che viene venduto a 2 euro al mezzo chilo. Quanto è stato pagato quel povero agricoltore in India o in Pakistan, considerando anche la quantità di chimica? Quando il governo pachistano chiede agli agricoltori di non mettere troppa chimica perché il prodotto viene rimbalzato in dogana io mi schiero dalla parte dell’agricoltore che dice: ’O così o tanto non lo vendo. Me lo tengo anche due anni pieno di sterilizzanti e poi lo vendo’.

Il cibo come fattore culturale. Un bene di comfort, sul quale viene riversata approssimazione e poca attenzione che influisce sull’alimentazione. Bisogna tenerne conto?

Assolutamente sì. Per essere consapevoli occorre avere forza di volontà. I film ci insegnano che quando siamo stanchi e stressati o beviamo qualcosa di super alcolico o ci abbuffiamo di gelato, magari quando abbiamo avuto una delusione. Serve tanto autocontrollo. Se in dispensa o nel congelatore non ci sono cose terribili e zuccherate, è più facile orientarsi su quello. Esistono anche dei trucchetti per prevenire questi stati: avere la carruba invece della crema spalmabile industriale, ad esempio. Se nel frigorifero, quando sono lucida e non sono stressata, riesco a mettere questi prodotti molto buoni, che danno grande soddisfazione e attuano il meccanismo della ricompensa, l’equilibrio tra sale grasso e zucchero, allora mi basta la crema di carrube. E anche in quel caso ho la mia ricompensa.

Paese che vai, ideologia che trovi

Sul mercato ci sono differenze marcate tra le varie zone del mondo?

Ci sono differenze ideologiche fortissime. Per esempio, gli Stati Uniti sono un mercato nel quale non fanno grande differenza per quanto concerne la provenienza degli alimenti e per loro il mondo è tutto a portata di mano; che il cibo arrivi dall’India o dal Giappone fa poca differenza, se italiano è meglio. L’impatto, dal punto di vista del trasporto, per gli statunitensi è inesistente. Sono abituati ad avere tutto di tutto.

Sul concetto di healthy come lo concepiamo noi c’è un divario enorme, anche dal punto di vista normativo.

In Europa abbiamo tantissima differenza tra nazioni. La Spagna è una nazione di manica molto larga, sia nell’uso dei pesticidi e degli erbicidi ma anche nello sfruttamento delle coltivazioni. La Francia dal punto di vista agricolo sta facendo un lavoro meraviglioso, in particolare sulle colture resilienti. La Finlandia è stata la prima a fare un lavoro incredibile sull’avena, la prima senza glutine. Di fatto, l’avena è un cereale senza glutine anche se molti la considerano con il glutine. Da nazione a nazione sono stati fatti tanti sforzi.

Cosa accade in Italia?

L’Italia si sta portando in pari, è la nazione in cui si coltiva più quinoa, uno dei più grandi produttori di quinoa è nel nostro Paese ed è un nostro fiore all’occhiello anche se nessuno ne è a conoscenza. Anche sul sorgo stiamo facendo tanti progressi. Serve trovare l’anello di congiunzione perché ciò che manca in Italia è il legame tra l’agricolo e le industrie alimentari. Ecco perché si torna all’informazione nei confronti del consumatore, in maniera tale che sia lui stesso a richiedere il prodotto all’industria.

In questo scenario come incide il tema del clima?

Ha una incidenza molto elevata, e per questo le coltivazioni resilienti come il sorgo e la quinoa stanno arrivando da noi perché sono molto più sostenibili del riso, del mais e della soia. Ci sono alcuni timidi esperimenti di risaie a secco, con vantaggi strepitosi perché non allagando la risaia ci sono meno contaminazioni con l’arsenico e il cadmio, ad esempio. Sono un beneficio per l’ambiente. In Italia sono ancora timidi esperimenti mentre in Svizzera, l’unica risaia in territorio elvetico, è a secco ed esiste da dieci anni.

Com’è cambiato il suo approccio con il cibo nel corso degli anni?

Sono nata nel 1972 e sono passata attraverso tutti gli scandali e tutte le innovazioni tra gli anni ’70 e gli anni ’80; da piccola mangiatrice di dado rettangolare a quello granulare e poi l’epoca delle merendine e dei risotti in busta, le creme spalmabili salate e dolci. Sono passata attraverso tutto il cibo spazzatura del mondo, crescendo. L’ottica era quella della semplificazione della vita. Dicevo ai miei figli l’altro giorno che quando ero giovane le saponette dure erano orrende e non avere il sapone liquido significava non essere nessuno. Oggi invece trovi la saponetta e abbandoni il liquido. C’è questa sinusoide bellissima e se uno guarda il cambiamento in prospettiva è meraviglioso.

Quando la vita chiede una svolta

Sono passata da questa condizione al morbo di Crohn. Quello è stato il momento in cui ho avuto la necessità di ripensare tutta la mia alimentazione.

Avevo due scelte: proseguire nel percorso della malattia affidandomi interamente alla medicina o prendere in mano la mia vita e fare qualcosa. Da lì è cambiato tutto.

Nel mio gruppo Facebook in cui ci sono tante persone che hanno qualche problema o lo condividono con i familiari, la parte motivazionale è che la malattia, in qualche modo, mette al riparo da un certo tipo di alimentazione.

Osservo un mondo di gente che si dispera perché non riesce più a mangiare le merendine e sollecita un mercato che propone un prodotto tale e quale utilizzando gli amidi, gli zuccheri e le fibre vegetali. Se invece si cambia il punto di vista ci si accorge che quello non è il proprio mondo ma che la malattia o la condizione di modifica genetica ti mette al riparo da quel tipo di alimentazione e l’approccio a te stesso è diverso, ci si osserva dentro diversamente, perché la malattia può anche essere la scoperta di un mondo nuovo.

Quale consiglio darebbe alle persone per iniziare un percorso di consapevolezza?

Direi: “Osservate come state durante la giornata. Ogni volta che vi gonfiate e che avete un piccolo malessere ripensate a cosa avete mangiato nelle ultime due ore”.

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