Francesca Oppia

Pesca sostenibile, una responsabilità da condividere

Subire ciò che ci circonda, o essere motore di un cambiamento positivo per noi e l’ambiente in cui viviamo. Una scelta, che solo basandosi sulla conoscenza, può diventare consapevole.

Farsi domande, attingere a più fonti, esercitare il potere di agire in una direzione sostenibile come individui, singole organizzazioni e come parte di una collettività.

Si propone di essere fonte di conoscenza e attore di sensibilizzazione nella filiera della pesca, Marine Stewardship Council (MSC), organizzazione non profit che lavora dal 1997 per salvaguardare l’oceano e le risorse ittiche attraverso un programma di certificazione per la pesca sostenibile.

Tra le altre iniziative, l’organizzazione realizza le ‘Settimane della pesca sostenibile”, nel nostro Paese, protagoniste quest’anno dallo scorso 16 e fino al 29 ottobre.

Oceani sotto pressione

“Gli ultimi dati FAO ci dicono che oltre il 35% degli stock (popolazioni ittiche, ndr) è sovra sfruttato e che una buona parte è al limite biologico; se non peschiamo in modo sostenibile, le risorse andranno ad estinguersi – esordisce Francesca Oppia – Program Director di Marine Stewardship Council Italia, incontrata in occasione delle ‘Settimane della pesca sostenibile 2023-. Non solo, l’oceano ha un ruolo fondamentale per quanto riguarda la regolazione della temperatura e tanti altri fenomeni climatici, per questo, il suo ecosistema deve essere mantenuto in salute. Dietro la pesca, poi, ci sono milioni di persone: nel sud del mondo, dove la pesca rappresenta una forma di sostentamento economico e nutritivo, e nel nord, ad esempio in Islanda o Norvegia, Paesi che basano la loro attività sulla pesca. È un fatto globale con impatti ambientali, economici e sociali”.

Com’è nata MSC?

A seguito di un disastro avvenuto in Canada, quando uno stock di Merluzzo è collassato. L’allora WWF e l’azienda che gestiva questa popolazione ittica si sono uniti per fare qualcosa; da lì è nata MSC, poi diventata autonoma come charity registrata a Londra, con uffici in tutto il mondo.

La nostra mission è quella di promuovere la pesca sostenibile, per combattere la pesca eccessiva e far si che si crei un mercato fatto di domanda e offerta, in cui i pescatori virtuosi siano premiati attraverso la scelta di chi compra.

Chi va a fare la spesa ha poco tempo, e normalmente, non è un biologo marino, come può scegliere davanti a uno scaffale o a un banco del fresco? In quel momento un prodotto vale l’altro.

Il marchio blu di MSC, che certifica tutta la filiera, ha, quindi, l’obiettivo di dire che a monte, un ente terzo credibile ha fatto delle valutazioni, noi che rilasciamo gli standard, infatti, non dobbiamo fare i controlli. E tutto è pubblico: nel nostro sito ci sono pagine e pagine di documenti che dicono perché una determinata fishery (attività di pesca, ndr) è certificata. I nostri standard si rifanno alle linee guida della FAO.

Quali sono i parametri delle vostre certificazioni?

La definizione di pesca sostenibile, per noi, si basa su tre principi intimamente legati: il primo è la popolazione ittica, di cui bisogna valutare la salute. Cosa vuol dire essere in salute per uno stock? Che la pesca preleva una quantità di pesci e ne lascia un’altra tale da consentirne la riproduzione. Considera che ci sono specie che si riproducono ogni anno, altre che lo fanno ogni due e specie che impiegano anche 10 o 20 anni.

Il secondo aspetto riguarda l’attrezzo con cui si pesca. Ce ne sono di più e meno impattanti, ma ogni singolo attrezzo deve essere valutato per dove viene utilizzato.

La pesca a strascico, ad esempio, in determinate aree non è sostenibile, ma utilizzata nelle foci dei fiumi, dove ci sono forti correnti e non ci sono particolari habitat delicati, probabilmente, si può utilizzare con dei correttivi.
Quando sentiamo dire se è pescato a canna è sostenibile, facciamo attenzione, perché se quella popolazione è in sofferenza, nessun attrezzo renderà la pesca sostenibile.

Noi ci scontriamo con tutta una serie di pillole di sostenibilità, a volte comunicate al consumatore, che non sono del tutto corrette rispetto a una certificazione che valuta nel complesso.

Qual è il terzo?

La gestione. Non si esce in mare e si pesca tutto quello che si trova. È una attività che va pianificata. La risorsa è in salute? Posso pescare un certo quantitativo. È in sofferenza? Preleverò meno. Dati scientifici calcolati su basi statistiche ci dicono qual è il quantitativo che può essere prelevato affinché quella risorsa resti in salute.

Alla vostra attività vengono mosse diverse critiche.

Sì, non piacciamo a tutti.
Una riguarda la barra della sostenibilità, che secondo i nostri standard dovrebbe essere più elevata: i pescatori la vorrebbero più bassa, alcune associazioni ambientaliste più alta.

Il problema è che se non hai una sufficiente quantità di pesce certificato non porti nessun cambiamento, perché il consumatore non lo trova sul punto vendita. Ti do un dato: in 26 anni abbiamo certificato solo il 15% del pescato globale, quest’anno il 16% globale, più un 1% in valutazione e un 2% sospeso.
Non è una certificazione semplice, il processo dura un anno e mezzo e, tra l’altro, va rinnovata ogni cinque anni dal momento che riguarda una risorsa in continua evoluzione e movimento: alcune popolazioni partono dal Canada, attraversano l’Atlantico e arrivano nel Mediterraneo, non è facile fare una stima sulla loro salute, è costoso, difficile e lungo. A livello mondiale, forse, abbiamo informazioni sul 50% delle popolazioni ittiche.

Impatto o non impatto?

Va detto che la pesca sostenibile non azzera l’impatto.

Qui non stiamo parlando di conservazione. Una cosa è creare un’area marina protetta dove vietare la pesca e conservare alcuni habitat, un’altra cosa è fare pesca sostenibile, che contribuisce anche alla conservazione delle popolazioni ittiche, ma come ogni altra attività umana ha un impatto. La pesca sostenibile non vuol dire pesca a zero impatto, vuol dire minimizzare l’impatto in modo che la risorsa si possa riprodurre. Come in agricoltura, si tratta di trovare un giusto equilibrio tra la tutela della natura e la vita umana. E si può fare.

Come facciamo a smettere di pescare quando abbiamo detto che ci sono milioni di persone che dipendono dalla pesca, non solo come fonte di guadagno, ma anche dal punto di vista nutrizionale?

Voi lavorate anche con la grande pesca, quella ‘commerciale’, ben lontana da quella che serve la sussistenza delle popolazioni.

Noi lavoriamo con la piccola e con la grande pesca, a molti questo non piace, ma i ‘grandi’ hanno un impatto ancora maggiore dei piccoli ed è importante far sì che la pesca commerciale non smetta di fare quello che fa, ma lo faccia in maniera diversa.

Tantissime organizzazioni che stanno lavorando solo con la piccola pesca, magari da 30 anni, non hanno ottenuto risultati tanto più grandi dei nostri, perché, come dicevo, il cambiamento deve coinvolgere tutti. È complesso trovare un equilibrio.

A proposito di equilibrio, un altro tema sensibile è quello del consumo di pesce locale.

Che si debba consumare pesce locale perché ha fatto meno strada e perché aiuta le comunità locali, questo sì. Al tempo stesso, facciamo un esempio che ci è vicino, il Mediterraneo è uno dei mari più sfruttati, se tutto il nostro consumo di pesce fosse riversato tutto qui avremmo un problema. Oltre il 75% del nostro consumo viene importato, spesso dai paesi in via di sviluppo.

Doppia responsabilità perché se andiamo a depauperare quelle zone mettiamo in difficoltà quelle comunità. Aggiungo che anche un consumo che tenga conto della biodiversità aiuta, evitare di consumare sempre alcune specie.

C’è un tema di accessibilità legata al prezzo?

Ti sembrerà strano, ma la sostenibilità dei prodotti ittici è democratica. Abbiamo il primo prezzo, in molti discount si trovano tanti prodotti certificati, e, poi, il prodotto di nicchia.

Quello che, comunque, dobbiamo imparare, questo è il mio punto di vista dopo anni di lavoro nella sostenibilità, è riconoscere il giusto valore al cibo. Se compro una scatoletta di tonno che costa pochissimo, mi devo domandare cosa c’è dentro e da dove proviene, stiamo sicuri che qualcuno la pagherà: noi alla cassa, o qualcuno nella filiera.

Collaborare prima di competere

Come reagisce alla vostra proposta il mondo delle aziende?

Ci sono due tipi di aziende, alcune hanno capito che la sostenibilità è un elemento strategico per la loro attività, altre la usano in maniera tattica, ne parlano perché è un tema che deve essere presente nella agenda quotidiana. I primi stanno facendo dei percorsi seri, non facili, anche se con tutti cerchiamo di fare un percorso realisticamente realizzabile e sostenibile per le organizzazioni, un pathway to sustainability.

Quel 15% di pesca certificata quanto riguarda l’Italia?

Nel Mediterraneo, che è in uno stato drammatico, al momento abbiamo una realtà dell’Adriatico.
Abbiamo lanciato anche un progetto che si chiama Blue Fish e che serve ad aiutare i pescatori che non possono certificarsi a fare un progetto di miglioramento. Facciamo uno screening, un pre-assesment, in cui diciamo dove il singolo si trova rispetto agli standard e cosa dovrebbe fare per migliorare, naturalmente ci vogliono anni.

Quando siamo arrivati in Italia, dieci anni fa, se parlavi di sostenibilità ittica, quasi ti ridevano in faccia o non ti ascoltavano, oggi non è più così. Anche tra i pescatori, che sono i primi ad avere il polso dello stato dei mari.

Va detto anche che il Mediterraneo è un contesto particolare, gli stock sono condivisi con realtà che possono avere altre priorità: se c’è una guerra, quanto può importare la sostenibilità?

La vostra azione coinvolge anche più realtà insieme?

Una fishery può anche essere un gruppo di pescatori, anzi, cerchiamo di fare sempre certificati che includono un’area, perché i pescatori devono imparare a collaborare tra di loro.

In questo senso, anche per quanto riguarda le aziende, MSC vuole mettere insieme organizzazioni trasversalmente agli stati; un movimento pre-competitivo in cui andare nella stessa direzione, a vantaggio di tutti.

Io scelgo per gli oceani

locandina campagna sulla pesca sostenibile Io scelgo per gli oceani, una donna sorridente

Come vedete il futuro?

Noi abbiamo un approccio ottimistico, diciamo c’è tanto da fare, si può fare: ci siamo posti l’obiettivo di avere entro il 2030 il 30% di attività nel programma, il che vuol dire che alcuni saranno certificati e altri staranno facendo i progetti di miglioramento. Certo è importante che ci sia una accelerazione.

Veniamo alle settimane della pesca sostenibile. La campagna 2023 si rivolge alle ‘persone’, a noi che andiamo a comperare.

Sì, in passato abbiamo parlato ai pescatori, oggi agli individui, alle famiglie.

Il consumatore è un po’ comodo, lo dobbiamo informare, educare e aiutare, anche  facendogli trovare i prodotti sullo scaffale, perché non può girare cinque supermercati per trovarli. Quest’anno gli diciamo ‘puoi fare la differenza’.

Dobbiamo mettere le persone nella condizione migliore per fare quello sforzo, anche piccolo, che può incidere, senza dover pagare il 30 o 40% in più sul prodotto.
In un momento di difficoltà economica è complesso, ma la sostenibilità non può passare in secondo piano.

Piccoli passi importanti. Non sottovalutiamo quello che può fare ciascuno di noi.

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