Marilena Fatigante
Marilena Fatigante

Pazienza, virtù per affrontare l’incertezza della vita

“Viviamo con la sensazione di non apparire, di non contare, di non controllare, di non potere, di non…”. Sono le parole che Paola Di Cori, saggista e studiosa, dal genere alle Medical Humanities, ha traslato dalla condizione femminile a quella di paziente.

Dal suo lavoro e dalla sua esperienza, Di Cori ha vissuto fino all’estremo la condizione del tumore, è nato un libro: Arte e pratica della pazienza.
Pubblicato a cinque anni dalla sua morte, questo testo traduce le riflessioni che Paola Di Cori ha intessuto in una serie di seminari e di conversazioni con amiche e amici, colleghe e colleghi intorno alla condizione dell’essere paziente: dalla percezione di impotenza alla necessità di essere visti e riconosciuti, in primis, da chi ci cura.

Una parola ‘paziente’, che richiama una ‘pazienza’ necessaria ben oltre lo stato di malato, che ci può venire in soccorso in ogni aspetto della vita. Di questo abbiamo parlato con Marilena Fatigante, psicologa consulente esperta dell’interazione in setting psicodiagnostico, professore associato del Dipartimento di psicologia dei processi di sviluppo e socializzazione dell’Università La Sapienza e curatrice insieme a Clotilde Pontecorvo del volume.

Questo libro partendo dalla condizione di ‘paziente’ porta un messaggio dedicato a tutti, malati e sani, curati e curanti.

Il paziente nel testo c’è, in tutti i contributi, al tempo stesso, l’essere paziente non è assenza di salute e presenza di malattia. L’autrice Paola Di Cori, anche facendo una ricerca accurata nella storia dell’arte e negli emblemi, l’ha riconosciuta come una delle virtù dei forti. L’essere paziente è una condizione chiaramente difficile, ma che, se utilizzata, è una via d’accesso per altro a cui, forse, non si pensa proprio in virtù del fatto di avere la salute.

Il vantaggio di essere in salute, certo, ci permette di non sostare sul significato del ‘patire’, ma anche su quello dell’andare incontro a una vita.

Ha un valore particolare parlare oggi di pazienza?

Nelle bozze c’era una parte, poi eliminata, che era riferita al covid e al fatto che questa collezione di saggi è stata intessuta durante la pandemia, che Paola Di Cori non ha vissuto e chissà…  di fatto, molte pazienti malate di tumore come lei hanno subito estremamente il danno del lock-down e del mancato accesso alle cure.
La pandemia, probabilmente ci ha insegnato che c’è una universalità della condizione di ‘paziente’, come c’è una universalità, a cui non pensiamo mai, della condizione mortale. E poi, siamo più intolleranti, impazienti: i media veloci, il tecnicismo, la corsa alla soluzione, in parte ancora molto presente nel ricorso ai farmaci.

Sappiamo che oggi i farmaci sono molto accessibili anche agli adolescenti, c’è una semplificazione, anche nel modo in cui si utilizzano soluzioni non farmacologiche ma ‘“’complementari’, dalla mindfulness a grounding per la gestione dello stress e dell’ansia. Il punto è che quasi tornando indietro a una credenza magica, si pensa che la soluzione motivi la guarigione e invece la guarigione è un processo che ha a che fare anche poco con il corpo: si può essere malati ma sentire di essere in contatto con la vita, molto meglio a volte di chi è in salute. Si parla di modernità liquida e di post-modernità da molto, nello stesso tempo, credo non si debba troppo insistere sul negativo di questa contemporaneità che è anche una occasione per pensare, come il covid è stato una occasione per molti di fermarsi e comprendere le radici del ‘senso’.

Oggi si cura sempre di più il sintomo e meno quello che c’è dietro. E sembra essere più ‘distratta’ la comunicazione tra medico e paziente.

Sta crescendo l’accento su questa necessità di ascolto. La medicina è straordinaria, nel senso che è una visione dell’umano, e in questo tempo è attraversata da una accelerazione sugli aspetti tecnologici e anche da un desiderio autentico di una parte, non esigua secondo me, di professionisti che intendono ‘condividere’ con il paziente, a vantaggio di una cura.

Se pensiamo poi al tumore è una cura cronica, ha bisogno di una alleanza lunga e che i pazienti siano resi competenti. Ci si trova ancora davanti a qualche medico più paternalista, ma è più raro, quello che ho osservato dalla mia ricerca è che spiegano tutti.

Certo, poi non sempre si ha la disponibilità, che non è solo personale ma è anche istituzionale, di fermarsi ad ascoltare.

La medicina è forse in questo bilico tra pazienza dell’attendere e dell’ascoltare e impazienza anche della domanda di salute da parte delle persone malate, dei loro familiari. Il libro ambisce a una necessaria collaborazione, a chiudere il testo c’è il contributo di una oncologa che ha conosciuto Paola di Cori e in poche pagine tratteggia una medicina molto sensibile e sofferta, sotto la pressione dell’accompagnare le persone verso un passo che è quello definitivo, oppure dentro l’ansia di una condizione incerta, come per ogni malattia.

Basta ascoltare la realtà e a volte l’esperienza personale, l’attenzione di cui parla non si ritrova così spesso in altri ambiti, per dirne uno vicino, senza volere stigmatizzare, quello della medicina di base.

Mi piacerebbe essere più documentata su questo, le rispondo con informazioni indirette sia a livello di letteratura scientifica, sia di esperienza personale. Sui medici di base ha toccato un tema estremamente caldo, credo sia anche recente una notizia riferita alla loro ‘fuga’ dalla professione. Questa soglia non è particolarmente ricca, è estremamente appiattita, con conseguenze importanti, lo abbiamo visto nel covid e lo vediamo con le nostre pazienti.

Le faccio un esempio: abbiamo video registrato alcune pazienti in una ricerca sulle visite specialistiche in oncologia. Qualche volta, nei follow up, alla domanda ‘come sta?’ riportano malesseri minori e a volte lo specialista le rimprovera e chiede perché non lo abbiano detto al medico di base… Questa figura deve essere forse rivitalizzata con interventi sistemici, che diano possibilità in termini di spazi, tempi, numero di utenze e, probabilmente, formazione. Quello che posso dire è che i temi della comunicazione medico paziente sono meno trattati a livello di base, mentre sarebbe importantissimo farlo, perché è lì che la competenza del paziente si comincia a fondare.

Guardare alla malattia e alla sofferenza come esercizio di pazienza può fornire una chiave originale per partecipare al senso e al fluire, ordinario e casuale, delle cose della vita (Paola Di Cori)

Come possiamo usare la pazienza come chiave per partecipare al fluire delle cose della vita?

Apro una riflessione più personale, la pazienza è sia quella che dà la condizione di paziente in campo medico, sia quella che si deve esercitare di fronte a condizioni che non dipendono da noi, su cui non abbiamo controllo e che sono lunghe e incerte: la crescita di un figlio, quella situazione conflittuale che non riusciamo a risolvere, uno stato d’ansia o di panico. In che senso possiamo utilizzarla? È come un esercizio di impotenza, ma nel positivo: la sensazione del fallimento della potenza e questo sarebbe importante da sentire anche per gli adolescenti, la vita che ci ritorna. Anche l’abbandono di persone care ci fa percepire questa condizione, che è quella dell’umano, non ne abbiamo un’altra e in qualche modo la vita è una illusione che ci distrae.

L’arte di ‘lasciarsi andare’ al sentire

Una verità come può essere negativa? L’esercizio dovrebbe essere quello di avvicinarla e vedere quanto si può anche godere, abbandonarsi alla percezione dell’impotenza perché nel momento in cui lo si fa non è detto che ci si sente niente, ci si sente il tutto. Io credo che Paola di Cori abbia un po’ avvicinato tutto questo, quando dice, nel seguito della citazione in una parte che non appare nel testo: ‘sento di avere bisogno di concentrarmi sull’essenziale, sulle cose piccole, proprio perché ho l’impressione di non contare, e tutto si sta riconfigurando io mi avvicino a ciò e affondo in qualcosa in cui mi posso sentire”.
C’è un suo cameo, dedicato alla poltrona e alla sensazione del corpo che affonda in queste forme calde. Ecco, c’è tanto da fare, ma non bisogna far tanto per sentire e le due cose non sono in contrapposizione.

La società negli ultimi decenni ci ha portato nella negazione: della fragilità, della fatica, del reale. Quanto è importante riagganciarsi a una dimensione ‘vicina’, anche al corpo?

Il corpo sensibile è straordinariamente potente, se si pensa agli stati di coscienza nel godimento, o anche nel dolore, sono incomparabili a quelli che si devono sollecitare dall’esterno con eccitanti o altro. Il corpo significa anche la percezione di tutte le cose, non bisogna immaginarsi che chi medita sta lì ed è separato da tutto, è molto in contatto, probabilmente se fossimo adulti un po’ più consapevoli di questo, potremmo insegnarlo anche ai ragazzi.

Torno alla pandemia e a chi ci è riuscito, anche se è stato difficilissimo perché bisogna non spaventarsi di questo viaggio, come per chi non si fa spaventare dal viaggio della malattia: per alcuni, anzi direi per molti, la malattia è una occasione, uno dei letterati all’interno del libro, Nicola Gardini, di recente ha scritto un libro Nicolas, sulla morte del compagno, e accenna proprio a questa condizione di ‘malatezza’, chi l’ha vissuta senza fuggirne ne fa arte.

Quanto contano sguardo e parola in questo ‘stare’ nella vita?

Analizzo conversazioni da 20 anni, mi ci sono laureata, forse però in questo momento, come peraltro ha fatto Paola Di cori, attribuirei una priorità allo sguardo, ai silenzi, o almeno ad un buon dosaggio. È straordinario come un medico possa riuscire a comunicare efficacemente e a dare argomentazioni complicatissime con la parola, però poi magari lo fa davanti a uno schermo.
L’aggancio dello sguardo sancisce il riconoscimento dell’altro come degno della attenzione e non è scontato; spesso siamo davanti alle casse, diamo un ‘buongiorno’, un ‘buonasera’ e non abbiamo avuto l’occasione di vedere la persona che ci stava davanti e ci parlava.

Riconoscere, riconoscersi

Paola Di Cori diceva che lo sguardo dal medico ce l’hai, ce l’ha il corpo, ma chi, cosa guarda il medico? E anche i pazienti a volte hanno paura di guardare il medico, nessuno è esente dalla disattenzione, dalla caduta di questo sguardo.

Lo sguardo comporta il vedere e il lasciarsi vedere.

È così, c’è una mutualità che non può essere elusa. Come nella diade madre/bambino e noi sappiamo che lo sviluppo del bambino come persona, nel suo senso di sicurezza, viene proprio da quello sguardo, la mamma gli può dare le cure ma, se non lo guarda, non è la stessa cosa.

Il fenomeno della comunicazione video ha introdotto un elemento di complessità, perché non è detto che abbiamo coordinamento mutuo nello sguardo, quando c’è un video veniamo anche un po’ distorte. Torno ancora al Covid, alle mascherine, il segnalatore unico che un altro ci approcciava è stato solo lo sguardo, per anni.

Nel testo emerge ‘Lo sguardo paziente’ il gruppo a cui partecipava Paola Di Cori, fatto soprattutto di medici e tutti coinvolti in una malattia. Sono le fragilità che ci fanno comprendere meglio l’altro?

Quello che so dalle testimonianze del gruppo è che per i medici è molto difficile avvicinare la vulnerabilità. Il gruppo ha, quindi, permesso di dare voce a qualcosa di difficile da comunicare all’esterno, salvo lo stigma e finire immediatamente in un’altra categoria.

Paola Di Cori teneva molto a questa questione delle categorie: quello a cui resisteva era l’idea che, quando un paziente entra in un ospedale o in uno studio, smette di essere ricercatrice universitaria, maestro, medico stesso, figlia, sorella, appassionato di qualcosa. Paola era divertita dal fatto che gli altri si stupissero perché durante i giorni di somministrazione della chemio, che prevedevano un breve ricovero, lei si portava dietro una pila di libri e con il suo computer continuava a lavorare.

Questo aspetto è stato ripreso anche dalle sue amiche all’interno della sezione che ha riguardato la memoria e l’archivio delle fonti: perché nei luoghi della degenza cronica, anche gli hospice, non ci possono essere piccole sale da concerto, una biblioteca, uno spazio di co-working, un salotto? Qualcuno lo fa, non è facile, però è una sollecitazione.
La cosa che mi ha stupito molto nell’Hospice dove ho visitato Paola gli ultimi giorni è che era super attrezzato e c’era una grandissima televisione davanti al letto e lei non guardava la televisione a casa. È buffo, perché quello che la struttura ospedaliera si immagina è un luogo privato dove il paziente di nuovo sia un fruitore passivo di contenuti e, in qualche modo, tutte le sue altre identità vengono disattivate.

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Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva.

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