Marco Piccolo Reynaldi ceo Reynaldi fotografato in azienda
Marco Piccolo Reynaldi

Fare, bene, il bene genera profitto

“Imprenditore “etico” alla ricerca di un’economia sostenibile ed inclusiva”. Si definisce così nel suo profilo Twitter, Marco Piccolo Reynaldi, Ceo dell’omonima società che produce cosmetici naturali. L’intervista di Quoziente Humano

Nella sua azienda, Benefit, un terzo degli utili vai ai dipendenti, si chiude alle 17 per godere della vita privata, si impatta quasi zero sull’ambiente e si contribuisce ad azioni di valore sociale.
Con il compito di farsi testimone di un differente modo di essere imprenditori (di successo), Marco Piccolo Reynaldi, ceo dell’azienda di cosmesi naturale Reynaldi, ci spiega perché non solo si possa, ma si debba, essere aziende sostenibili. Una critica, la sua, che va oltre e punta a costruire nel profit come nelle grandi istituzioni, dallo Stato alla Chiesa.

La cito, “la sostenibilità non è un capriccio”. Perché?

È un paradigma imprescindibile, un modo di essere per l’impresa e per le persone.
Serve cambiare i paradigmi di base e non pensare soltanto che l’azienda deve avere come primo obiettivo l’utile a tutti i costi, facendo morti e feriti. Una presa di coscienza del valore sociale dell’imprenditore, o andiamo a schiantarci contro un muro.

Una cartiera che disbosca, dopo due anni non ha più lavoro. Iniziare a usare il cervello e dire ‘uso solo la quota di bosco che si autorigenera ogni anno’, mi permette di diventare sostenibile anche economicamente, perché il mio business diventerà infinito. Si chiama saggezza, umanità, cura del creato.

Da cosa dipende un cambio di rotta?

Dipende dalle persone, non dalla dimensione aziendale.
Il problema vero è del cuore dell’uomo e del cervello dell’imprenditore. Finché non cambieremo il cuore e non insegneremo un’economia civile in cui non ci può essere beneficio per l’azienda se contemporaneamente non genera beneficio sociale e ambientale, non andremo da nessuna parte.

Se insegniamo ai giovani che il successo arriva con la macchina e la casa bella e saranno felici quando avranno tanti soldi è evidente che genereranno dei meccanismi economici in cui devono massimizzare il beneficio e gli utili per sé. Educazione dei giovani, eticità, bene comune, generatività, il dono, questi sono i valori che porteranno alla nuova economia.

Famiglia, scuola, parrocchia. Pilastri vacillanti

Dove stanno i semi della cultura attuale e futura?

Ci sono tre grandi capisaldi. Il primo è la famiglia, oggi in crisi perché mancano le competenze educative: come possiamo pensare di educare i giovani se i genitori arrivano alle nove di sera, non ci sono più i nonni, i ragazzi sono abbandonati. Motivo per cui noi, in azienda, alle cinque chiudiamo. Tutti. Perché voglio che le mamme vadano a prendere i figli a scuola, i papà stiano in famiglia, che ci sia un tempo di vita insieme. Capite come le aziende possono essere motivo educativo e di spinta verso una nuova società…

Quali sono gli altri ?

C’è la scuola. Ma quando abbiamo insegnanti che antepongono dei diritti ai propri doveri nei confronti dei giovani, dove andiamo? Ormai sono solo dipendenti pubblici che cercano di massimizzare e di fare il meno possibile, manca una vocazione.

E poi c’è l’oratorio, la parrocchia. Io sono animatore ed educatore e non vedo più i Don Bosco, abbiamo preti che celebrano e basta, figure prive di carisma, di attenzione agli altri, di voglia di stare in mezzo ai ragazzi. È un peccato.
Senza queste tre grandi figure, la nostra società faticherà molto.

Come ci arriviamo allora?

Bisogna cambiare le regole, dire ad esempio agli insegnanti che non ci sono diritti se prima non si è fatto il proprio dovere verso gli altri. La Costituzione parla di diritti, perché i doveri erano così profondamente inculcati nel cuore delle persone quando l’hanno scritta, che non li hanno dovuti neanche scrivere. Oggi, invece, abbiamo perso il senso del dovere e ci aggrappiamo ai diritti, il diritto al posto di lavoro per esempio, ma senza prima dire ‘cosa do io in cambio?’.

Restiamo sulla scuola.

Faccio l’esempio dell’inglese, dovremmo fare la metà dei corsi al liceo nella lingua con cui lavora il mondo, ma dato che gli insegnanti non lo sanno i sindacati si oppongono. In un mondo che evolve velocemente, noi siamo blindati dalle caste, ognuno fa i propri interessi, a discapito dei più deboli e i più deboli sono i giovani, i senza lavoro, i precari.

Io assumo solo ragazzi che sanno l’inglese, non riesco a trovarne e rimango sconvolto del fatto che all’Istituto tecnico il 90% dei giovani non parla correttamente l’inglese. Sono ragazzi infelici, senza possibilità di un posto di lavoro, se non mediocri, in aziende mediocri in cui magari non gli pagheranno neanche lo stipendio. Cercano lavoro sotto casa… bisogna veramente aprire le menti a questi ragazzi.

Cuore e cervello

Torno a parlare di noi. Abbiamo iniziato a lavorare con l’estero due anni fa e oggi fa il 20% del nostro fatturato. Dal 2008, ogni anno cresciamo del 25% e facciamo utili, un terzo lo distribuiamo ai collaboratori, dell’impatto ambientale ho detto, realizziamo progetti con Don Ciotti, con il Burkina Faso, con il Gruppo Abele, con San Patrignano a dimostrazione che fare bene il bene si può. Per fare profitto, non è necessario distruggere l’ambiente, uccidere le persone, bisogna avere cervello.

Fare bene il bene è un compito delle società Benefit come la vostra?

No. Noi siamo nati con questa impostazione nel 2000 e nel 2016, quando è uscita la legge sulle società benefit, l’ho trovata allineata a quello che eravamo, così siamo diventati la prima società d’Italia, ma è un riconoscimento sociale.

Insisto, è il cuore delle persone che cambia le situazioni. Noi non abbiamo fatto la certificazione americana, la BCorp: mi costa 2 mila euro all’anno, ma io non voglio il bollino, sono ciò che sono. C’è tanta gente che lo vuole, per raccontare di essere benefit, poi vai a vedere dietro e c’è veramente poco.

Però, se prima fare del bene era da sfigati oggi farlo e farlo bene genera profitto. L’innovazione tecnologica e quella sociale e ambientale, quindi la sostenibilità, sono i due driver di crescita per il futuro delle aziende. L’80% del POR, i fondi europei che arrivano alle Regioni, sono sulla sostenibilità. Serve che gli imprenditori inizino a camminare in quella direzione perché conviene.

Politica dove sei?

Le istituzioni aiutano i virtuosi?

Se guardiamo alle dichiarazioni del ministro Cingolani sul fatto che l’incidenza delle emissioni europee nel bilancio mondiale complessivo è pari o inferiore ad 8% troviamo una visione povera, di basso livello, ‘ignorante’ nei termini del non comprendere i meccanismi e così ci ritroviamo con scelte politiche e strategie medioevali. È una sciocchezza, perché in realtà ci sono tante aziende che vanno a produrre in Cina e poi portano qua. L’inquinamento è in Cina ma serve a me.

A livello territoriale va meglio?

Faccio un esempio, dicevo che recuperiamo il 97% dei rifiuti industriali, portiamo vetro, plastica e cartone a un centro di recupero che li prende gratuitamente: per loro è un materiale secondario di riciclo e noi abbiamo un certificato che mi posso spendere con i clienti. Però ho dovuto lottare per due anni con il Comune per non pagare più la tassa sui rifiuti: 8 mila euro all’anno.

Io dimostro che con una buona gestione non ci sono costi, anzi risparmi, e lo stato, che dovrebbe incentivare le aziende, mi dice che quegli ottomila euro all’anno gli servono per la gestione del sistema. Ma se non ti do più nessun rifiuto cosa ti devo pagare? È una tassa, un balzello o un costo di un servizio? Se non c’è servizio, allora non c’è costo.

Non è una politica che vuole incentivare un percorso di sostenibilità, vuole soltanto soldi per continuare a dormire come sta facendo, mentre dovrebbe dire territorialmente da domani devono fare tutti come fa Reynaldi, azzeriamo i rifiuti e diventiamo un comune virtuoso.

Perché non mettiamo i pannelli fotovoltaici su tutte le scuole italiane? Sono così efficienti che noi dopo 8 anni siamo già in break even. Durano 25 anni… e guadagniamo. Tutti parlano di sostenibilità, ma poche persone sono competenti, bisogna studiare, andare a conferenze, conoscere persone per approfondire.

In AIPEC e come impresa sensibilizzate altre aziende e il legislatore?

Torno al tema del produrre (e inquinare) all’estero. Quando vado a fare un assessment, non è soltanto dell’azienda nella sua scatoletta, ma di tutta la filiera e sempre di più si deve chiedere ai fornitori di essere sostenibili. Non posso dire di esserlo se poi mi servo da uno che inquina tantissimo, è proprio dinamica differente.

Gli effetti a cascata, soprattutto di quanto fanno ad esempio le grandi multinazionali del lusso e della moda francese, piuttosto che della cosmetica, sicuramente impatteranno sugli altri comparti. Devo dire anche che nelle dinamiche sociali o quando vado a raccontare qualcosa, le realtà che incontro si sentono ispirate e nasce una voglia di emulazione.

Viviamo una sola vita e io la voglio buona, non mi interessa stare 8 ore in ufficio a rodermi. Voglio buone relazioni, scelgo il cliente e il fornitore in base alle relazioni personali di umanità. Voglio persone che di fronte ai problemi, perché ci sono sempre, si aprano al dialogo e alla collaborazione, non lavoro con gente pretestuosa che pensa solo ai soldi, non mi interessa proprio e tutto questo porta a una crescita del 25% all’anno. Vuol dire che questa strategia, anche di relazione umana, è virtuosa.

Se si può fare, si deve dire

Cosa pensa dell’informazione, della comunicazione?

Può fare tanto, grazie a Dio ci sono i social, mentre prima la comunicazione era appannaggio solo delle grandissime società che avevano tantissimi soldi da investire sulla stampa, a oggi, anche una piccola impresa che fa del bene locale, può raccontarsi. L’importante è la trasparenza.
Non esiste sostenibilità senza comunicazione. Noi dal 2003 abbiamo prodotti fatti con il burro di karité del Burkina Faso, in passato non dicevamo a nessuno della sua provenienza e del progetto sociale con cui si promuove la dignità e il valore delle donne di quell’area. Poi, abbiamo capito che la logica cristiana del ‘non veda la mano destra quello che fa la sinistra’ non aveva senso. Abbiamo ricevuto dei talenti che dobbiamo far fruttare e, nell’era digitale, la comunicazione è un talento, quindi abbiamo il dovere morale e sociale di raccontare le cose belle che facciamo.

Tanto le persone sui social ci vanno, è meglio che leggano cose buone con dei contenuti di valore, piuttosto che sciocchezze. Se persone competenti e oneste hanno dei contenuti hanno il dovere sociale di scriverli, non per vantarsi ma per ispirare gli altri.

Stefano Zamagni, Luigini Bruni, i miei maestri per cui ho massima stima, teorizzano l’economia di comunione e mi ispirano tantissimo, ma tra il parlare e il fare c’è una grandissima differenza e passare dal fare al farsi seguire è ancora più difficile. Riuscire a creare una impresa e vivere realmente un pensiero è tutt’altra cosa, è lì che nasce la vocazione sociale dell’imprenditore. Può fare tanto bene e può fare tanto male per la società. Ecco perché è importante raccontarlo.

Siamo interconnessi diceva.

Conta l’incontro. Non basta dire faccio un prodotto con la materia prima dell’Africa, mando una mail e me lo faccio spedire. Incontrarsi, toccarsi, guardarsi negli occhi, leggere l’umanità delle persone, è da lì che nascono bei progetti, sono le persone che li generano. Noi siamo uomini che fanno prodotti per altri uomini. Le aziende non esistono, sono comunità di persone che lavorano per uno scopo più grande.

Come la mettiamo nell’era del digitale e pure dei distanziamenti?

Non potrei mai fare tutto quello che sto facendo in un’altra era, alle 11 ho un’altra intervista, alle due sono in regione con l’Assessore, alle sei ho un appuntamento… si può fare di più. Però bisogna ricordarsi che esiste una profondità di relazione, per questa servono differenti distanze, o vicinanze, e in certi momenti è giusto vedersi.

Ma quante volte si spendono tre ore di macchina per un quarto d’ora di incontro, ore che magari dedico alle persone in azienda, ai collaboratori, a stare in famiglia.
Come in tutto ci vuole saggezza ed equilibrio.

Con i vostri collaboratori avete trovato questo equilibrio?

La produzione è rimasta sempre attiva, ma non abbiamo fatto accordi per cui gli impiegati restavano a casa e gli altri no, abbiamo pensato alle persone non ai ruoli.

Di nuovo, l’attenzione alla persona. Ci sono esigenze anche aziendali e almeno uno per ufficio ci deve sempre essere, ma se vogliono lavorare di notte, se vogliono andare a sciare un giorno a me non interessa, perché c’è stima e fiducia reciproca e a seconda delle necessità riusciamo a organizzarci. Come in una famiglia.

Come in una famiglia, qual è il ruolo degli adulti nei confronti dei giovani?

Sono educatore e formatore dei giovani, la mia vera passione. Bisogna dare loro spunti di futuro che non possono venire da insegnanti ancorati a modelli del 1800 e che non sono mai entrati in una azienda. Noi una volta al mese apriamo le porte per fare vedere cos’è l’impresa veramente. L’alternanza scuola lavoro era bellissima, in realtà era un ‘insieme scuola e lavoro’, continuità e collaborazione con i docenti, a favore dei ragazzi: per capire come va il mondo e decidere la traiettoria della propria formazione. Il futuro è incerto sicuramente, ma i ragazzi in gamba sceglieranno che lavoro fare e in che azienda andare.

Cos’è per lei il Quoziente Humano?

Quando assumo qualcuno, lo porto a prendere un aperitivo o ci sediamo sui divanetti e parliamo un po’, in azienda la prima cosa che chiedo sono relazioni buone tra le persone. L’intelligenza relazionale, la capacità di modellare le richieste, la capacità di stare insieme di fare comunità.

I capi più importanti sono quelli che si prendono cura degli altri. Questo è il vero cuore della azienda. Le persone ogni giorno donano se stesse nel risolvere problemi quotidiani, fanno molto più di quello che viene chiesto se non hanno la paura di essere giudicate.

Foto di gruppo

Così riusciamo educare, ‘educere’, tirare fuori. Molte persone sono ancora in una fase immatura umana, piene di paure, ferite, incertezze, per me la soddisfazione è avere collaboratori che sbocciano e riescono a fare 10, 100 volte di più di perché trovano sicurezza. Dico sempre, camminate tutti i giorni sul filo con equilibrio ma se sbagliate, perché chiunque lavora sbaglia, sono la rete sotto di voi e vi proteggo, queste aiuta le persone a dare il meglio di se stesse.

Sta anche in questo la ricerca del senso?

Gli uomini sono ricercatori di senso e il tempo di lavoro non deve essere il tempo per guadagnare soldi per vivere fuori, ma quello in cui mi realizzo, trovo il senso della mia vita e capisco il valore di me stesso, attraverso il valore di quello che faccio. Anche chi pulisce per terra e toglie le ragnatele dal muro sa che, se pure in una parte piccolissima, partecipa al progetto più grande e deve capire il valore del progetto.
Questo è quello che dobbiamo fare noi imprenditori.

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Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale; da oltre 5 anni è consulente alla comunicazione positiva e allo sviluppo della persona attraverso strumenti a mediazione artistica espressiva.

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